Almeno negli ultimi cinque, dieci anni, ci siamo progressivamente resi conto che, come comuniste e comunisti, non stavamo perdendo un legame empatico-politico e sociale con il nostro popolo, la nostra classe di riferimento per via soltanto di un uguale e progressivo scemare della cultura di sinistra in Italia. Per un po’ l’abbiamo pensato, cullandoci nell’illusione che bastasse recuperare alcune parole chiave nell’interpretazione dei problemi più cogenti, quelli che avremmo dovuto mettere sempre in cima alla lista delle priorità rivendicative per fare avanzare i diritti degli sfruttati.

Abbiamo fatto più di un tentativo per ripristinare una forma di comunicazione che ci pareva veramente adeguata, veramente consona alla riconnessione con le lavoratrici e i lavoratori, con i precari, con i giovanissimi moderni schiavi di una mercificazione di menti e braccia che fa impallidire vecchie forme di proprietà dell’individuo, depersonalizzato e alienato nel processo produttivo. Ma questi tentativi, che abbiamo chiamato con diversi nomi e figurato con altrettanto differenti simbologie, si sono arenati nelle secche di una mutazione complessiva della politica italiana inserita in un contesto continentale e globale di grandi mutamenti.

Le nostre ipotesi per un rilancio della sinistra comunista e di alternativa, per una riproposizione in chiave moderna delle grandi idee di uguaglianza che hanno ispirato la nascita dell’anticapitalismo militante, della coscienza critica e sociale, si sono rivelate soltanto delle illazioni, dei tentativi completamente falliti anche se coraggiosi. Perché ci vuole coraggio nel resistere per decenni in una condizione di assoluto minoritarismo politico che, via via, si va estendendo nella società e che la uniforma, rendendola impermeabile a qualunque richiamo alla contrapposizione di classe tra lavoro e capitale, tra sfruttati e sfruttatori, tra padroni (imbelliti con la definizione universale di “imprenditori“) e prestatori della propria forza(lavoro).

Ci vuole coraggio per mantenere viva, se non altro, una alternativa di società figurata, scritta in tanti editoriali, su altrettanti volantini, diffusa con i pochi mezzi che abbiamo ed essere allo stesso tempo pienamente consapevoli che questa lotta è veramente così impari e sproporzionata per poter essere anche soltanto affrontata con un certo spirito di sacrificio del proprio tempo, quindi della propria vita.

I richiami all’”Ideale“, quello per antonomasia, con la “I” maiuscola, servono a ben poco se non a ricordarci la giustezza e la fondatezza di una lotta politica e sociale che non può, non deve e non vuole scomparire. E in questa volontà sta oggi tutta la resistenza intellettuale, morale, civile, fisica e materiale per non lasciare che ai lavoratori, ai precari, ai pensionati, agli studenti e a tutti quanti vivono sopravvivendo, restino come sole opzioni di scelta il liberalismo liberista delle forze del centrosinistra da un lato e il sovranismo liberista, razzista, xenofobo, omofobo e neonazi(onalista) dall’altro.

In mezzo a questo bivio improponibile, a questo ricatto permanente sul piano sia morale sia politico, soprattutto nell’aprirsi in piena era pandemica del fenomeno della presunta (e presuntuosa) onnipotenza liberista draghiana, rimane di stretta attuale necessità la riproposizione costante di una terza via, di un tertium datur, di una considerazione urgente per un adattamento dell’analisi della fase globale al più ristretto ambito “locale” (quindi nazionale).

E’ importante non scindere progetto di lungo termine e proposta di breve termine: teoria e prassi vanno sincretizzate, ricomposte dopo la scissione operata volutamente da chi ha teso a rappresentare l’idea come mero ideliasmo utopistico per far regredire un pragmatismo progressista divenuto l’impietoso scendiletto di un riformismo capace dei peggiori trasformismi nel nome della “governabilità“, quindi della propria accettazione nel consesso liberista in cui partiti ex comunisti hanno finito per trovare una nuova indecorosa vita, richiamandosi di volta in volta – per mere convenienze elettorali – all’utilità di un voto per battere le altre destre, quelle non solo economiche.

Le forze della sinistra riformista, piccole appendici di un mondo politico dominato dai tre blocchi più o meno grandi (PD, sovranisti e Cinquestelle), non hanno ormai più alcuna possibilità di recuperare un terreno di costruzione condivisa con i partiti della sinistra comunista e di alternativa per costruire quella terza possibilità nella complessità tutta moderna della politica italiana. Ed anche se questa possibilità si concretizzasse in un nuovo “spazio aperto” tanto alla discussione, all’interlocuzione, quanto alla vera e propria organizzazione di un movimento o di un partito della sinistra, sarebbe un nuovo – ma questa volta volutamente miope e non solo ingenuo – tentativo della disperazione, una riproposizione di vecchi schemi ormai logori e veramente incomprensibili alla stragrande maggioranza della popolazione.

Nuovi progetti hanno bisogno di nuove gambe sicure, di chiare linee guida da cui non si può deviare con tatticismi che sovrastano la strategia di lungo termine. Troppe volte abbiamo sacrificato sull’altare della mera sopravvivenza un inizio completamente ex novo: avremmo dovuto fare tabula rasa da già parecchio tempo. Forse ben prima di quei cinque, dieci anni che si citavano nelle prime righe di queste riflessioni. Ma non siamo, a differenza della questione ambientale, climatica ed ecologica, ancora all’allerta del punto di non ritorno. La dialettica politica e sociale si muove su frequenze temporali molto diverse e quindi è altamente elastica. Persino troppo duttile.

La stagione autunnale, e la proiezione ancora incerta sull’uscita dalla pandemia, non possono trovare la sinistra di alternativa ancora a lungo incerta su questa scelta forse palingenetica, certamente ricostruttrice di un patrimonio culturale, politico e sociale che non può essere valutato solo in base alla percezione popolare, alla trasmissione della stessa, di bocca in bocca, di mente in mente, mediante quell’alterato rapporto delle idee presente nella alienante deformazione mentale del “mainstream“.

La preservazione della cultura dell’alternativa di società è solo il primo punto di partenza. Non basta a sviluppare nuove critiche, nuove coscienze e un nuovo rapporto di lotta tra le classi. I lavoratori hanno bisogno di risposte immediate ma anche di una prospettiva entro cui far vivere queste stesse, alimentare e determinare nuove tensioni solidali che unifichino le lotte, che riducano l’atomizzazione delle vertenze e che quindi creino i presupposti per rigenerare una percezione veramente concreta e reale, oltre i social network, oltre il racconto e oltre l’immaginato.

Oltre tutte le false notizie che circolano e quelle “fantasie di complotto” che inficiano la lotta di classe, perché la fanno apparire come secondaria rispetto ai tanti presunti “complotti” mondiali in atto. L’unico vero complotto si chiama “capitalismo“. Contro questo bisogna riprendere a lottare unitariamente, con la consapevolezza di ciò che si è rimasti e con la perseveranza per ciò che si vuole tornare ad essere.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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