Lunedì prossimo il sindacalismo di base e conflittuale scende in piazza a Roma e lo fa, dopo tanti anni, in una data unica. Una scelta motivata dalla necessità di dare un segnale forte e «reagire all’attacco che il “governo dei migliori” sta portando alla vita, alla dignità e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori», come scrivono le Camere del lavoro autonomo e precario (Clap)

Prevista per lunedì 11 ottobre un’importante giornata di mobilitazione, organizzata, oltre alle Clap, da Adl Cobas, Sial CobaS, Usb, Cobas, SiCo.Bas: tutte assieme, queste organizzazioni sindacali, riconoscono che con il nuovo esecutivo a «crescere senza sosta è la generale condizione di precarietà del lavoro e delle vite di molte e molti, attraverso l’aumento dei contratti a termine, la contrazione salariale e l’assenza di investimenti necessari per migliorare le condizioni di lavoro».

Per farci raccontare e contestualizzare quelli che sono le principali problematiche del mondo del lavoro che lo sciopero di lunedì intende far emergere abbiamo contattato l’avvocato giuslavorista Salvatore Corizzo, componente dello studio legale Lavoro Vivo e dell’ufficio vertenze delle Clap.

Quali istanze animano lo sciopero?

Lo sciopero di lunedì vuole essere un primo momento di messa in comune delle pratiche e delle lotte da parte delle organizzazioni del sindacalismo di base: dobbiamo, infatti, essere in grado di instaurare una processualità e condividere una piattaforma di lotta che vada oltre le singole vertenze e metta al centro del dibattito alcune questioni più generali. La prima è quella della rappresentanza e del generale esercizio dei diritti sindacali nei luoghi di lavoro; la seconda invece è la necessità di immaginare un piano per le stabilizzazioni e il reclutamento nel pubblico; c’è poi tutto il tema dell’introduzione di una forma di salario minimo intercategoriale, quello di una maggior capacità sanzionatoria nei confronti del datore che esercita degli abusi e più in generale il contrasto al lavoro dilagare del lavoro nero e/o falso autonomo. L’ultima questione riguarda l’introduzione di un reddito di cittadinanza universale e incondizionato, che sia strettamente legato al salario minimo: una misura di dumping al rialzo, che permetta di poter rifiutare salari non adeguati alla prestazione di lavoro richiesta.

Foto dall’archivio DINAMOpress

Procediamo in ordine e affrontiamole la questione della rappresentanza…

A partire dal 2011 ci sono stati una serie di accordi confederali che sono poi confluiti nel Testo unico della rappresentanza del 2014, firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria con lo scopo di misurare, appunto, la rappresentanza nei luoghi di lavoro. Le modalità e i criteri in cui si è scelto però di misurare la rappresentanza sono stati fatti ad hoc per escludere tutte le altre organizzazioni sindacali. Uno dei problemi riguarda il fatto che chi ha sottoscritto tale accordo ha preso impegni a trattare sulla base di piattaforme maggioritarie dei sindacati che abbiano almeno il 51% di rappresentanza. Da ciò ne consegue un patto di esclusione nei confronti delle organizzazione sindacali “di minoranza” (spesso quelle più conflittuali e alternative), salvo che non si siano “piegate” ad aderire all’accordo.

Inoltre, secondo il tenore del testo, si può desumere che ai fini dell’istituzione delle rappresentanze aziendali, non basterebbe partecipare ai negoziati aziendali, ma bisognerebbe sottoscriverne l’intesa finale. Si tratterebbe insomma di un aggiramento della importante sentenza della Corte Costituzionale 231/2013. Infine, trovo intollerabile la previsione secondo cui le clausole dell’accordo aziendale, anche se peggiorative, devono valere nei confronti di tutte le lavoratrici e i lavoratori, senza che questi abbiano la possibilità di pronunciarsi su di esso tramite l’esercizio di un referendum aziendale, annullando l’azione dei lavoratori eletti nelle R.S.U. ma in disaccordo con la maggioranza. 

Purtroppo i confederali, giocando sul piano della rappresentanza, agiscono una conventium ad excludendum nei confronti dei sindacati di base, alternativi o sociali (come il nostro) che avrebbero però un effettivo radicamento nei luoghi di lavoro e spesso finiscono per non poterlo esprimere a causa degli accordi confederali sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil insieme a Confindustria. Inoltre, l’insistenza nel voler instaurare una nuova fase di concertazione, come è stato negli anni Novanta, in particolare nel 1993 (che di fatto ha portato soltanto a preservare il loro pacchetto di potere e non a una trasformazione radicale delle le relazione industriali), è una posizione che non favorisce il conflitto nei luoghi di lavoro.

Un altro punto riguarda invece il reclutamento nel pubblico e le stabilizzazioni…

Molto spesso, anche nel pubblico, tramite l’invenzione delle in-house, si recluta personale, che lavora a tutti gli effetti per la funzione pubblica, con contratti precari, a termine e di collaborazione, al fine di aggirare l’articolo 97 della Costituzione che prevede che per lavorare all’interno del pubblico bisogna necessariamente passare attraverso concorsi pubblici. Le in-house sono dunque dei veri e propri contenitori di precarietà in grado di garantire al pubblico, in diverse forme e articolazioni, l’utilizzo di manodopera e competenze spesso estremamente qualificate, sovente demansionate e sotto-inquadrate. Però la vertenza Anpal dimostra come anche lì è possibile uscire a far stabilizzare centinaia di persone e avere un contratto dignitoso, bandendo dei concorsi interni.

Per vincere, in questa fase di precarietà espansiva che viviamo, bisogna combinare l’azione sindacale nei luoghi di lavoro a un’azione di natura giudiziale e vertenziale: in assenza di un “legislatore” in grado di garantire tutele e dignità alle lavoratrici e lavoratori, le sentenze svolgono una funzione riparatoria rispetto quelli che sono diritti lesi all’interno del mondo del lavoro. Tuttavia, i problemi all’interno del nostro ordinamento restano.

Foto di Andrea Tedone.

L’introduzione del salario minimo potrebbe essere d’aiuto in questo senso?

Sì, questo è un altro aspetto su cui bisognerebbe ragionare con urgenza. Introdurre un salario minimo intercategoriale contribuirebbe a limitare gli effetti del dumping salariale al ribasso che si verifica in tanti settori (soprattutto nel terzo, nelle cooperative, nella ristorazione e nella logistica). Introdurre un minimo salariale, condiviso da tutte le categorie e tutti i settori, sulla base delle tabelle retributive dei contratti generali “avanzati”, potrebbe essere una formula per evitare gare al ribasso sulle condizioni di vita e di lavoro per tanti e tante.

Il Reddito di cittadinanza (Rdc) è connesso al salario minimo?

In questo momento storico, le regole del mercato del lavoro permettono al datore di massimizzare il profitto scaricando tutti i costi sulle vite di lavoratori e lavoratrici e non su un’innovazione industriale o un ripensamento delle modalità organizzative: un esempio concreto è l’aumento vertiginoso delle ore di lavoro giornaliere richieste (ben oltre i limiti stabiliti dalla legge) senza pagare una giusta retribuzione. Da questo punto di vista il Rdc ha smascherato il giochino: anche attenendoci solamente a quello che è previsto dalla nostra legislazione e ai nostri principi costituzionali, l’articolo 3 dice che tutti devono vivere una vita libera e dignitosa e da questo punto di vista, il Rdc è un piccolo (seppur insufficiente) passo avanti. Infatti, l’accesso al Rdc permette di rifiutare in parte il ricatto al lavoro sottopagato e indegno: spesso abbiamo sentito di padroncini offrire paghe mensili che non superavano i 500 euro.

Io penso che il Rdc sia una misura che vada estesa nei criteri della platea e rispetto anche la quantità dell’ammontare. È una misura necessaria, ma non soddisfacente: a mio avviso bisognerebbe ripensarla, facendo sì che diventi assolutamente incondizionata e universale, andando a recuperare le somme per finanziarla tassando magari i profitti e alcune operazioni come quelle del mercato finanziario. Sarebbe invece sbagliato rafforzarla in quanto misura di workfare, come in parte già è. Io lo vedo come un vero e proprio ius existentiae: deve permette una continuità di vita che prescinda dall’obbligo e dal ricatto lavorativo.

Purtroppo il Rdc così com’è strutturato al momento si ispira al tedesco Hartz IV: la prima misura di workfare che condizionava l’erogazione di un reddito di base a una serie di lavoretti spesso dequalificanti. Credo invece che il reddito possa e debba essere affiancato da un servizio pubblico di profilazione, di incrocio tra domanda e offerta, di formazione di chi è alla ricerca di un impiego, ma senza alcuna condizionabilità lavorativa.

Torniamo al tema di una maggior vigilanza sui comportamenti datoriali…

Mi sembra che la dinamica in cui sta andando il diritto del lavoro e i poteri dati in mano ai datori favoriscano quasi un diritto all’abuso da parte di quest’ultimi, in contrasto con l’utilità sociale e tutela della sicurezza, della libertà e dignità umana delle lavoratrici e dei lavoratori, in spregio a quanto previsto ad esempio, dal secondo comma dell’articolo 41 della Costituzione. Quanto accaduto in vicende come quella di Textprint a Prato o di Grafica Veneta è molto inquietante: ci troviamo dinnanzi a un vero caporalato istituzionalizzato che non parte dalle campagne, ma si muove direttamente nel settore industriale e all’interno della metropoli. Il datore di lavoro esercita un potere assolutamente afflittivo e para-schiavistico nei confronti di lavoratori e lavoratrici. Da questo punto di vista, per esempio, quanto accaduto a Prato è emblematico: sono stati licenziati lavoratori accusati inizialmente di aver tenuto atteggiamenti aggressivi nei confronti del datore di lavoro, poi si è scoperto che la loro unica colpa era stata quella di rendere pubbliche le condizioni di lavoro di quel luogo (salari molto bassi, ferie mai pagate, straordinari e orari di lavoro esagerati, violenze da parte di colleghi che erano lacchè del datore). Una sentenza del tribunale di Prato ha poi dimostrato, infatti, come il licenziamento fosse assolutamente ritorsivo e che configurava una condotta anti-sindacale.

Quanto accaduto a Textprint (ma è lo stesso in Grafica Veneta e, in particolare, in tutto il comparto della logistica), è esemplare del contesto in cui ci troviamo. C’è uno scarico di tutte le contraddizioni del mercato del lavoro su lavoratori e lavoratrici. Per non parlare della facilità con cui i datori di lavoro possono decidere di chiudere aziende adducendo presunti motivi economici: basta una piccola contrazione economica da poter giustificare il licenziamento di centinaia di lavoratori. Da questo punto di vista le vicende Gkn e Ita sono emblematiche.

Foto dall’archivio DINAMOpress.

A Roma, dove operate come sindacato di base, la situazione è simile?

Questo è il quadro in cui ci muoviamo e che anche qui a Roma con le Clap avvertiamo. La composizione del lavoro qui a Roma è soprattutto servizi, commercio e ristorazione. Però anche lì c’è un filo conduttore comune: se diamo uno sguardo al settore del commercio e dei pubblici esercizi, quello che accade nelle cucine di quasi tutti i ristoranti e bar è assolutamente in linea con quanto raccontato finora. Lavoro in nero o contratti di lavoro in cui sono previsti orari che poi in realtà son ben maggiori; ferie, permessi e straordinari non pagati; nessuna tutela dell’incolumità fisica(che dovrebbe essere uno dei doveri del datore di lavoro). Soprattutto quest’ultima è una questione che andrebbe approfondita e dovrebbe essere al centro del dibattito nazionale, non solo tra le organizzazioni sindacali. Leggevo in questi giorni che l’inchiesta sulla morte della lavoratrice a Prato per il malfunzionamento di un macchinario è avvenuta perché la manomissione dello stesso garantiva un 8% in più di produttività. Se questo lo sommiamo alle ulteriori morti sul lavoro, ci troviamo di fronte a consapevoli scelte imprenditoriali che, pur di massimizzare il profitto, mettono a serio rischio l’incolumità del lavoratore e della lavoratrice.

Qui a Roma, nella ristorazione per esempio, ustioni, tagli, fratture, sono all’ordine del giorno. Molto spesso poi il grado di afflizione e di ricattabilità porta a non denunciare gli infortuni, perché sotto minaccia da parte del datore, dunque pur di non perdere il posto di lavoro, ci si limita a rimanere a casa ma senza usufruire della malattia e delle altre tutele previste. Insomma viviamo una situazione di estrema precarietà e mi sembra che il diritto del lavoro sia in una fase estremamente deteriore, garantisce ben poco lavoratori e lavoratrici e molto la controparte datoriale. L’azione combinata tra la lotta sindacale dentro e fuori i luoghi di lavoro e quella giudiziale, può portare a un’auspicabile e urgente inversione di tendenza.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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