di Luca Manes

La devastazione della foresta Amazzonica procede senza sosta a causa della a dir poco discutibile linea politica del presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Ma anche l’Europa sta svolgendo un ruolo tutt’altro che marginale, come rivela il nuovo rapporto dello European Network of Corporate Observatories (ENCO) e della Ong brasiliana Vigência.

Nel rapporto intitolato “Invisible Hands, European Corporations and the Deforestation of the Amazon and Cerrado biomes” si fanno i nomi delle imprese del Vecchio Continente che stanno contribuendo alla distruzione delle aree naturali più importanti del Brasile.

Insieme alla foresta pluviale del Congo in Africa, l’Amazzonia è un ecosistema chiave per la salute ambientale globale, poiché influenza il clima attraverso il suo ruolo di deposito e stoccaggio del carbonio. Ma a essere impattato pesantemente dalle attività umane è anche il Cerrado, ovvero la savana più ricca del mondo. Entrambe queste immense regioni sono abitate dalle popolazioni indigene e dai discendenti degli schiavi africani, che hanno vissuto per secoli facendo coesistere l’economia locale con la gestione sostenibile delle risorse naturali. Fino a quando questo grande equilibrio è stato stravolto da interessi economici che mal si accompagnano con la tutela dell’ambiente.   

Neil Palmer/CIAT, CC BY-SA 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0, via Wikimedia Commons

L’attacco è arrivato da più fronti: agribusiness, estrazione mineraria e disboscamento illegale. Come forse ricorderete, nel 2019 degli incendi molto estesi hanno devastato grandi aree della foresta amazzonica. Non erano per nulla casuali, bensì funzionali alla “creazione” di aree di pascolo per il bestiame. Anche nella regione del Cerrado enormi tratti di vegetazione della terra indigena sono stati convertiti in aree per il pascolo e la produzione agricola, soprattutto della soia. La metà della produzione mondiale di questo legume si trova in Sud America, segnatamente in Argentina, Paraguay e Brasile, dove si è registrato un aumento dal 1997 che si aggira intorno al 400%. La soia brasiliana va a sfamare gli immensi allevamenti di maiali cinesi, ma non va dimenticato che il 41% delle importazioni europee giungono proprio dal Paese sudamericano. Nel 2020 gli stati dell’Unione Europea hanno importato complessivamente dal Brasile soia e farine di soia per un valore di 2,5 miliardi di euro, in netto aumento rispetto agli 1,5 miliardi del 2019 e agli 1,7 del 2018. Studi citati nel rapporto di Enco e Vigência dimostrano che le coltivazioni sono responsabili dell’acuirsi del fenomeno della deforestazione e che la soia prodotta in aree disboscate – per un totale complessivo di almeno due milioni di tonnellate – arriva in particolare in Olanda e Spagna. Eppure sette paesi europei, tra cui l’Italia, nel 2015 avevano firmato la Dichiarazione di Amsterdam in cui si impegnavano a porre un freno alla deforestazione legata allo sviluppo delle attività agricole.

Ma oltre a essere beneficiari delle produzioni in Amazzonia e nel Cerrado, come accennato le compagnie europee sono anche presenti nell’area, in varie forme. Il settore finanziario non fa mancare il proprio sostegno, con casi “estremi” come quello che ha visto protagonista la banca spagnola Santander, multata nel 2016 per 15 milioni di dollari per aver fornito il suo sostegno a coltivazioni su aree disboscate illegalmente.

Negli ultimi 15 anni, nelle due regioni sono state create numerose società fondiarie, interamente incentrate sull’acquisizione, la vendita, l’affitto e la gestione di terreni agricoli. Nel Cerrado, grandi territori indigeni, ufficialmente di proprietà dello Stato, vengono così privatizzati illegalmente. Gli abitanti, molti dei quali appartengono a comunità tradizionali o a comunità rurali molto povere, vengono cacciati con la forza, le loro abitazioni abbattute e vaste aree disboscate. È l’effetto della deregulation imposta da Bolsonaro. Più recentemente, queste aree agricole sono state vendute a società di agribusiness o a società fondiarie, che possono affittare o vendere la terra. Tre fondi d’investimento europei contribuiscono al funzionamento di queste società nella regione del Cerrado: il fondo pensione tedesco Ärzteversorgung Westfalen-Lippe, quello olandese Algemeen Burgerlijk Pensioenfonds e lo svedese Andra AP-fonden. 

Oltre al sostegno finanziario, ci sono anche aziende europee che operano direttamente nelle regioni dell’Amazzonia e del Cerrado, soprattutto nel settore minerario. La britannica Anglo American, il più grande produttore di nikel in tutto il Brasile, prima dell’inizio della pandemia aveva presentato sei richieste di esplorazione in territori abitati da comunità indigene, che si vanno ad aggiungere alle quaranta ottenute nel decennio precedente. La Anglo American è finita nell’occhio del ciclone per un incidente occorso a una sua pipeline nello stato del Minas Gerais. Una corte locale ha imposto alla società il pagamento di oltre 60 milioni di euro in compensazioni per i danni provocati. Sorte analoga è toccata alla norvegese Norsk Hydro, attiva nella produzione di alluminio e bauxite. Controllata dallo stato per il 34%, la Norsk Hydro è stata accusata dalle autorità brasiliane di essere responsabile di una grave perdita di rifiuti tossici nei pressi del suo impianto di Alunorte, che è il  più grande del Pianeta per la produzione di alluminio e si trova poco distante dal Rio delle Amazzoni. Le acque contaminate, divenute improvvisamente rosse, hanno fatto riscontrare valori anche 35 volte superiori alla norma. La compagnia norvegese ha anche ammesso di aver realizzato tubature del tutto illegali per rilasciare sostanze proibite nel Rio Muripi, inquinando così l’acqua potabile della comunità di Barcarena.

“Il nostro studio ha confermato che sia come consumatori che come finanziatori, i governi e le istituzioni europee continuano ad alimentare la crisi del Serrado e dell’Amazzonia”, sottolinea Gonzalo Berron di Vigência, tra gli autori del rapporto.

L’istituto di ricerca brasiliano Imazon ha appena pubblicato gli ultimi, agghiaccianti dati sulla deforestazione: 1.606 chilometri quadrati spariti, il dato più alto degli ultimi 10 anni, con un aumento del 7% rispetto allo stesso mese 2020. Finché ci sarà Bolsonaro al potere, il trend non è destinato a mutare. Sta all’Europa, a parole fin troppo virtuosa, provare a invertire la rotta e ridurre il suo contributo nefasto all’annientamento del polmone del Pianeta. Ma non sarà per nulla facile.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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