Sergio Romano è una delle grandi figure della diplomazia italiana del ‘900, in particolare grazie agli anni passati a Mosca come ambasciatore in Unione Sovietica (1985-1989), continuando a frequentare anche negli anni successivi il Paese sia prima che dopo la fine del comunismo dell’Europa orientale. Erano quelli gli anni della perestrojka e di Michail Gorbačëv, l’uomo che, non senza responsabilità, avrebbe assistito impotente alla fine dell’URSS. Erano gli anni in cui gli intellettuali liberali come Francis Fukuyama annunciavano sprezzanti “la fine della storia”, preconizzando un futuro idilliaco che non avrebbe mai avuto luogo.

In Il suicidio dell’URSS (2021, Sandro Teti Editore), una raccolta di articoli pubblicati da Sergio Romano negli anni finali della vita dell’Unione Sovietica, non ritroviamo solamente una mera cronaca delle ultime fasi dell’esistenza dello Stato edificato da Vladimir Lenin, ma interessanti considerazioni dell’autore che spaziano in settori apparentemente poco connessi fra loro, dalla letteratura russa alla storia di Paesi lontani da Mosca, come la Jugoslavia – della cui dissoluzione viene offerta un’interessante panoramica – o l’Impero Ottomano, fino alle relazioni intercorse tra l’Unione Sovietica e gli interlocutori più insospettabili, come il Vaticano o lo Stato d’Israele, per mezzo delle vicende della numerosa comunità ebraica che vive ancora oggi in Russia, fino al governo italiano. “A una prima occhiata il libro potrebbe sembrare antologico e il titolo un comodo “contenitore” destinato ad accogliere scritti di argomento diverso”, affermiamo riprendendo il commento di Romano su di un libro di Massimo Salvadori (p. 196), ma in realtà mantiene, nella sua vasta varietà, un’organicità che ne rende sempre interessante la lettura.

Anche limitandoci alla sola Unione Sovietica, argomento portante dell’opera, il testo offre interessanti spunti che riguardano tutta la storia del Paese dalla sua fondazione rivoluzionaria alla sua dissoluzione con un colpo di mano che ebbe luogo nonostante il 76% della popolazione si fosse espresso in un referendum per il mantenimento dell’URSS. A spingere per la fine dell’Unione non furono le forze centrifughe provenienti dalla repubbliche più remote poi divenute indipendenti, ma proprio i dirigenti russi, nazionalità dominante, che, con una delle più celebri espressioni di Sergio Romano, erano “stanchi di svenarsi per finanziare il teatro di Taškent”. A portare alla dissoluzione dell’URSS fu, in fin dei conti, lo sviluppo di una classe dominante all’interno di uno Stato che era nato per abolire le differenze di classe, che raggiunse il proprio apice proprio negli anni del riformismo della perestrojka: “Il problema all’ordine del giorno non era la battaglia fra democrazia e comunismo ma fra le borghesie di partito delle singole repubbliche, ciascuna delle quali si batte per conservare i propri privilegi, difendere le proprie prerogative, impedire ad altri, all’interno del futuro Stato sovietico, di mettere le mani sulle proprie risorse” (p. 211).

La fine dell’Unione Sovietica, come – in maniera ancor più esasperata – quella della Jugoslavia, corrispose anche al riemergere di quei nazionalismi che erano stati sopiti dal collante ideologico del comunismo. Venuto a mancare quest’ultimo, “la rinascita del patriottismo nazional-religioso dei russi rialza vecchi steccati” (p. 64), quel nazionalismo panslavo e ortodosso che nell’800 si era imposto come carattere distintivo dell’identità russa, e che viene analizzato soprattutto nella prima sezione del libro. Ma “la morte del comunismo ha risvegliato […] non soltanto i nazionalismi più antichi e legittimi, ma anche i più fragili e inconsistenti” (p. 254), portando con sé non solo la frammentazione territoriale, ma anche conflitti regionali come quelli del Caucaso, che si sarebbero sviluppati negli anni seguenti.

Come detto, nella sua opera Sergio Romano raccoglie testi redatti un trentennio fa, e lo stesso autore ammette nelle note introduttive di alcune sezioni del libro di aver cambiato il suo punto di vista su determinate faccende. Non era infatti un momento semplice in cui scrivere articoli sull’Unione Sovietica, ed in quelle fasi era facile lasciarsi prendere la mano con giudizi a volte troppo ingenerosi: “Trascinati dalla furia iconoclastica di questi giorni dimentichiamo che lo Stato sovietico ha avuto in molte parti di questo immenso Paese una funzione arbitrale e modernizzatrice” (p. 254). Allo stesso tempo, Romano non poteva conoscere la bibliografia storica che sarebbe emersa successivamente, in parte purificata dai veleni della Guerra fredda che avevano spinto gli accademici a pendere da una parte o dall’altra, così come non poteva prevedere del tutto quello che sarebbe stato il mondo unipolare postsovietico a guida statunitense. Il giudizio sul boia dell’URSS Boris El’cin (a nostro avviso comunque troppo generoso, come quello su Gorbačëv), o quello su Eduard Ševardnadze, ad esempio, non potevano tener conto di quanto costoro avrebbero compiuto alla guida dei rispettivi Stati, la Federazione Russa e la Georgia.

Soprattutto, ci troviamo in disaccordo con i giudizi espressi nei confronti delle politiche sovietiche nei primi decenni di vita di questo Paese. In particolare, la lettura di Romano sembra aderire a quella che Domenico Losurdo definisce la “leggenda nera” su Stalin, utilizzando stime sulle “vittime” del “meraviglioso georgiano”, come l’autore ama chiamare il secondo leader sovietico citando un epiteto formulato da Lenin, che oggi sembrano quanto meno eccessive. Nel testo si legge che “10 milioni di kulaki […] vennero sloggiati con la forza dalle loro case, imprigionati, fucilati o costretti a camminare per decine di chilometri, buttati su un treno e scaricati al di là degli Urali”, mescolando dunque arresti e fucilazioni come fossero la stessa cosa. Secondo la ricostruzione dello storico britannico Orlando Figes, tuttavia, i morti delle purghe degli anni ‘30, compreso il processo di dekulakizzazione, ovvero di “liquidazione dei kulaki in quanto classe”, sarebbero stati 376.202, mentre il numero degli arresti sarebbe stato pari a 669.929.

Citando Andrea Graziosi, Romano afferma ancora che “nella sola Ucraina [sarebbero] morti di fame fra il 1930 e il 1933 da 4 a 7 milioni di persone”, attribuendone implicitamente le colpe alle politiche staliniane di collettivizzazione della terra. Anche in questo caso, le stime sono state oramai riviste da una storiografia che con il passare del tempo è diventata sempre più obiettiva, rifuggendo sia il totale negazionismo di una parte che l’esagerazione dei numeri a fini denigratori dell’altra. A tal proposito, lo stesso Graziosi ha pubblicato nel 2013 un nuovo articolo in collaborazione con altri autori nel quale si afferma che i morti della carestia ucraina non sarebbero stati più di 2.9 milioni. Inoltre, si calcola che la grande maggioranza di queste morti si sia verificata nella sola regione ucraina di Kuban, nella quale ebbe luogo la vera e propria carestia, mentre i suoi effetti furono molto meno importanti nel resto del Paese. Secondo lo storico statunitense Mark Tauger, la carestia sarebbe stata causata da una combinazione di fattori, in particolare il basso raccolto dovuto a disastri naturali combinato con l’aumento della domanda di cibo causata dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione.

Anche sulla morte di Sergej Mironovič Kirov, leader del Partito Comunista a Leningrado, Romano riprende quella che era la versione data dalla storiografia occidentale dell’epoca, che attribuiva il suo omicidio a Stalin. Questo era quanto meno quello che era venuto fuori nel corso del processo revisionista noto come “destalinizzazione” lanciato da Nikita Chruščёv nel 1956, ma tale versione è stata successivamente smentita da diverse ricostruzioni, tra le quali quelle dei già citati Losurdo e Graziosi, secondo i quali l’autore materiale dell’omicidio, Leonid Nikolaev, avrebbe agito da solo.

Non vogliamo soffermarci a lungo su tali questioni, e certamente non vogliamo farne una colpa all’autore, visto che le pubblicazioni da noi citate sono tutte comparse nel XXI secolo, e non erano dunque a sua disposizione a quel tempo. Tuttavia, non possiamo non accennare a quella che secondo noi è la pecca più grave del testo, ovvero dove Romano cade nella trappola dell’equiparazione del comunismo sovietico, in particolare dello stalinismo, con il nazismo, con annesso utilizzo della categoria di “totalitarismo”, spesso utilizzata come metodo di denigrazione. Vista oggi, questa equiparazione è ancora più lesiva in quanto avviene in un clima di revisionismo storico che investe tutta la prima metà del ‘900, e che tende ad equiparare l’URSS ai regimi nazi-fascisti con il fine celato di rivalutare questi ultimi.

Lungimirante, invece, il giudizio su quello che sarebbe potuta essere l’assetto mondiale postsovietico, quello di un mondo unipolare dominato dagli Stati Uniti: “La fine della Guerra fredda ha avuto per ora, al di fuori dell’Europa, una conseguenza potenzialmente negativa: ha sottratto le crisi locali al condominio conflittuale delle grandi potenze. Come in altre circostanze le partite della pace e della guerra potrebbero concludersi a somma zero. Alla pace sull’Elba, sul Danubio e nel Mare del Nord potrebbe corrispondere la guerra nel Caucaso, nel Mar Nero, sul Giordano e sull’Eufrate” (p. 192). Ancora, nell’articolo simbolicamente intitolato “Nuovo disordine mondiale”, in barba alla presunta “fine della storia”, l’autore afferma che “la fine della Guerra fredda non avrà alcuna benefica influenza sui conflitti regionali e sulle crisi locali. L’America è nel Golfo per difendere la via del petrolio, non per restaurare la libertà del Kuwait”. Romano del resto non ha mai risparmiato le proprie critiche agli Stati Uniti, come quando denuncia la “gabbia d’acciaio della Nato che imbottiglia l’UE condannata a rimanere un soggetto politicamente minorato” (p. 13), riprendendo la prefazione a firma di Luciano Canfora. Anzi, il nostro anticipa in maniera quasi profetica persino uno dei grandi effetti dei conflitti mediorientali e nordafricani, la crisi migratoria: “Tutti si chiedono con inquietudine che cosa accadrebbe se due grandi ondate migratorie provenienti dal Sud islamico e dal Nord-Est ex marxista investissero contemporaneamente le società occidentali” (p. 264).

Allo stesso tempo, l’autore preconizza già il risveglio della Russia post-sovietica dopo un periodo letargico, paragonando il Paese ad un orso, e ricordando che “come in altri momenti della sua storia l’orso avanzava maldestramente, ora due passi avanti e uno indietro, ora un passo avanti e due indietro” (p. 39). Dopo “la Russia postsovietica […] nel breve regno di El’cin che svendeva il suo paese a passo di carica” (Canfora, p. 10), con la nuova fase del riscatto russo, aperta dall’ascesa al potere di Vladimir Putin, “non sarebbe la prima volta che l’orso, dopo un passo indietro, ricomincia ad avanzare” (p. 40).

In conclusione, riteniamo che il testo di Sergio Romano meriti assolutamente una lettura da parte di coloro che sono interessati alla storia russa e sovietica, ma una lettura effettuata cum grano salis, ovvero alla luce dei trent’anni di storia e di storiografia trascorsi. Siamo infatti più generosi dell’autore quando afferma che “grazie al 1989 abbiamo finalmente buttato via quasi tutti i libri e gli articoli che avevamo messo da parte nella speranza di trarne qualche aiuto per anticipare il futuro” (p. 196), e riteniamo invece che la lettura di articoli scritti in quell’epoca, siano essi di Romano o di altri autori, mantengano un elevato valore storico e di documentazione.

BIBLIOGRAFIA CITATA

FIGES, Orlando (2008), The Whisperers: Private Life in Stalin’s Russia, Metropolitan Books.
GRAZIOSI, Andrea (2007), L’ Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica, 1914-1945, Il Mulino.
GRAZIOSI, Andrea et al. (2013), After the Holodomor: The Enduring Impact of the Great Famine on Ukraine, Harvard Ukrainian Research Institute.
LOSURDO, Domenico (2008), Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci.
ROMANO, Sergio (2021), Il suicidio dell’URSS, Sandro Teti Editore.
TAUGER, Mark B. (2001), Natural Disaster and Human Action in the Soviet Famine 1931-1933, The Carl Beck Papers.

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Giulio Chinappi – World Politics Blog

Di Giulio Chinappi - World Politics Blog

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, “Educazione e socializzzione dei bambini in Vietnam”, Paese nel quale risiede tuttora. Nel suo blog World Politics Blog si occupa di notizie, informazioni e approfondimenti di politica internazionale e geopolitica.

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