A latere di una assemblea pubblica contro i licenziamenti abbiamo raccolto alcune testimonianze di ordinaria violenza padronale e repressione nei luoghi di lavoro.

Federico Giusti  

Nel corso di un’assemblea contro i licenziamenti e la repressione nei luoghi di lavoro sono emerse riflessioni degne di essere commentate.

La prima riguarda i cambiamenti intervenuti a livello legislativo che rendono agevole il ricorso ai licenziamenti non essendoci più l’obbligo della riassunzione se non in pochi casi, condizione favorevole per le aziende che volessero licenziare delegati e lavoratori scomodi sapendo di cavarsela con poche mensilità di indennizzo.

La seconda riflessione riguarda invece il mix tra obblighi di fedeltà aziendale, codici di comportamento, autentiche minacce alla libertà di espressione nei luoghi di lavoro dove, venuta meno perfino quel poco di democrazia compatibile con il rapporto di lavoro subordinato, subentrano paura e rassegnazione.

Nulla di nuovo, concetti ripetuti in tante occasioni e con ampie documentazioni, ma spunti di riflessione utili in tempi pandemici.

A inizio 2022 è ormai acclarato che, con il ripristino dei licenziamenti collettivi, sono stati perduti migliaia di posti di lavoro. Negli ultimi due anni ci sono stati molti provvedimenti disciplinari conclusi con il licenziamento o con mesi di sospensione, denunce civili e/o penali, querele con richieste di risarcimento che hanno affievolito la resistenza dei lavoratori.

Abbiamo raccolto, in forma anonima, alcune testimonianze. Omettiamo i nomi per paura di ritorsione da parte dei datori di lavoro. Sono testimonianze sufficienti a ricordare che la riforma dell’art. 18 ha spianato la strada alla barbarie padronale contro la forza lavoro.

N., 27 anni, licenziato, dipendente di un’impresa appaltatrice di servizi per gli ospedali

“Un licenziamento arbitrario dopo mesi di lotte e scioperi dentro una vertenza costruita per avere i giusti inquadramenti contrattuali. Il provvedimento disciplinare è l’arma utilizzata per licenziarmi, a seguito del mio abbandono del posto di lavoro. Non è stato riconosciuto che l’allontanamento era motivato dalla richiesta di lavoratori della ditta i quali chiedevano il mio intervento in qualità di delegato sindacale. Nei mesi passati l’azienda aveva arbitrariamente spostato ad altri incarichi lavoratori iscritti al sindacato. Perfino il rispetto delle normative inerenti salute e sicurezza era motivo di richiami disciplinari.

Le aziende oggi sanno di potere licenziare grazie alla revisione dell’art. 18 che non si applica più nel privato rafforzando il potere datoriale. Se un giudice riconoscerà come illegittimo il licenziamento, l’azienda dovrà pagare un semplice indennizzo in denaro in base agli anni di servizio. La riassunzione arriva solo in casi eccezionali, come nel caso di licenziamenti giudicati arbitrari per pregiudizi religiosi, sessuali ecc. Per questo ci sono i provvedimenti disciplinari che rendono tutto facile, sommando sanzioni si arriva al licenziamento per giusta causa col pretesto che è venuto meno il rapporto di fiducia.”

F., 45 anni, licenziato per ristrutturazione aziendale

“Lavoravo in una piccola ditta del commercio da quasi 24 anni, avevo ricoperto anche incarichi di coordinamento fino a quando è sopraggiunto l’esaurimento nervoso. Lavoravo dieci ore al giorno dal lunedì al venerdì e 5 ore il sabato mattina, uno straordinario apparentemente volontario ma imposto dall’azienda che doveva far fronte alle richieste del mercato. L’azienda non intendeva affrontare tali richieste con nuove assunzioni ma solo con contratti part-time a tempo determinato o attraverso l’interinale. Al mio ritorno da nove mesi di assenza per malattia ho subito il demansionamento. La causa intentata è stata persa persa in tribunale. Con la mia iscrizione al sindacato, nell’arco di un anno, la situazione è degenerata. Io e miei colleghi ci siamo ritrovati davanti alla soppressione di un reparto aziendale. Alcuni di noi sono stati assorbiti dalla ditta subentrante alla quale è stato ceduto il ramo di azienda, ma per me non c’era posto e con mille scuse mi sono ritrovato a casa con gli ammortizzatori sociali. E nonostante l’esperienza acquisita, il passa parola tra i padroni è stato determinante per chiudere ogni porta a un lavoratore scomodo che aveva osato ribellarsi ai dettami padronali. Se i licenziamenti economici non prevedono il reintegro ogni azienda potrà sempre cavarsela con il cosiddetto equo indennizzo ossia monetizzando il posto di lavoro con una buona uscita.”

F., 54 anni, sospeso sei mesi per provvedimento disciplinare

“Sono rientrato da pochi giorni in servizio, mi hanno assegnato un ufficio periferico dove lavoro praticamente da solo senza colleghi/e. La mia colpa? È quella di avere denunciato pubblicamente la mancata adozione dei protocolli anticovid. Ci siamo ammalati in azienda; mancavano le mascherine e il distanziamento era un miraggio. Mi è stato contestato il mancato rispetto degli obblighi di riservatezza aziendali per avere rilasciato una dichiarazione alla stampa locale, sono stato querelato e incombe una richiesta di risarcimento che non potrò onorare qualora il Giudice dovesse accogliere le richieste datoriali. Non mi resta che difendere con i denti questo posto di lavoro perché con un solo stipendio in famiglia faremmo la fame. I codici di comportamento sono stati costruiti ad arte per tapparci la bocca. Lavoro in una piccola azienda, non so per quanto tempo ancora. C’è chi mi ritiene fortunato per avere ancora conservato il posto, io sono solo in attesa di una sorte che pare già segnata.”

M., 59, anni addetta alle pulizie

“Un giorno mi sono stancata di portare sacchi da 30 kg per due piani di scale, alzarmi ogni giorno alle 4 per lavorare dalle 5 alle 9 e ritornare due ore alla sera. Sei ore di lavoro pagate alle quale aggiungere un’altra ora senza retribuzione, qualche volta a recupero. Sono andata a protestare dal committente che invece di accogliere la protesta – le responsabilità negli appalti dovrebbero essere in solido e la committenza dovrebbe vigilare anche sul rispetto delle condizioni di lavoro – si è lamentata con la ditta che ha subito aperto un provvedimento accusandomi di indisciplina. A distanza di poche settimane è arrivato il licenziamento perché sarebbe venuto meno il rapporto di fiducia. La committenza pubblica ha assunto il classico atteggiamento degli struzzi. Negli appalti si lavora tanto guadagnando poco, le normative di sicurezza sono inesistenti e per chi si ribella c’è il licenziamento.”

Come il lettore può constatare, alcuni di questi provvedimenti disciplinari vengono presi da imprese che lavorano in appalti pubblici, senza che l’ente appaltante intervenga a tutela dei diritti dei lavoratori. Al torto del legislatore che ha consentito il pieno ripristino del dispotismo del capitale e a quello dell’impresa che ne approfitta, si aggiunge quasi regolarmente l’inerzia dell’ente pubblico. In una pubblica amministrazione che sempre di più vuole somigliare al privato, ben venga il super sfruttamento e il ricatto dei lavoratori che, direttamente o indirettamente, fa risparmiare. 

I governi legiferano [1] al ribasso delle tutele, poi tagliano i fondi per i servizi pubblici e incentivano gli appalti; le amministrazioni devono risparmiare. Il risultato non deve quindi stupire.

Note:

[1] Per la verità il potere legislativo, secondo la Costituzione, spetterebbe al parlamento, ma sempre più quest’ultimo si va trasformando in un apparato di mera ratifica dei provvedimenti governativi. “La sovranità appartiene al popolo” recita ancora la nostra Carta. Ma se i rappresentanti del popolo non contano niente e le decisioni fondamentali vengono prese altrove, si può ancora parlare di democrazia?

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/la-giungla-dei-senza-diritti-dopo-la-revisione-dell%e2%80%99art-18

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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