In Colombia le comunità indigene lungo il fiume sono sotto attacco, molte le vittime e gli sfollati. È in atto una crisi umanitaria, la risposta statale è un’ulteriore militarizzazione

LUNGO IL FIUME

Nessuno si presenta all’incontro, un silenzio intenso accompagna il buio che impedisce di capire dove finisce il fiume ampio e tranquillo e comincia la riva piena di fango. A qualche decina di metri, una telecronaca interrotta dal vai e vieni del segnale molto debole accompagna gli schiamazzi di alcune persone abituate a fare i conti con la tecnologia a disposizione.

Poco a poco, con fare timido, arrivano i più puntuali: un uomo con una vecchia maglietta gialla della nazionale colombiana, poi una donna di una certa età, i capelli grigi e lisci raccolti in una coda bassa.

Quando l’arbitro fischia l’intervallo si presentano altri giovani con il gilet blu scuro della guardia indigena, l’entità che senza armi ma con il potere simbolico del bastone di comando si incarica di assicurare l’autoprotezione della comunità.

Dialogano fra loro in modo acceso, la lingua è il Woun Meu, quella dei Wounaan che abitano lungo i bordi del “Litoral San Juan”, il grande fiume che separa i dipartimenti del Chocó e del Valle del Cauca e che sfocia nell’Oceano Pacifico di fianco alla città di Buenaventura, dove si trova il più grande porto commerciale della Colombia: oltre il 60% delle mercanzie – inclusa la cocaina – passano da lì.

Le parole sono incomprensibili, però è piuttosto facile intuire che hanno fretta, non vogliono perdersi il secondo tempo: quella sera, contro l’Argentina, la Colombia si gioca le ultime possibilità di andare ai mondiali in Qatar. Il risultato è fermo sullo zero a zero, ma la partita finirà con una sconfitta. Eppure, la matematica dice che c’è ancora qualche speranza, seppur minima.

Quando parla il “leader comunitario” – un giovane che avrà al massimo 30 anni – la sua voce assume un tono solenne malgrado stia appena sussurrando: quasi tutti lo ascoltano senza più badare al tempo che passa né alla distrazione dello sport, il gioco ora si fa serio per davvero.

Nella comunità di fianco a quella di Puerto Guadalito, che prende il nome di Unión San Juán, altre autorità ancestrali confermano quanto detto poco prima: che i paramilitari stanno avanzando di villaggio in villaggio, che controllano il Río Calima, diramazione del Litoral San Juan, e che pochi giorni fa sono stati visti quattro cadaveri fluttuare lungo il fiume.

Dall’altra parte di quest’ultimo, nella comunità afro-colombiana di Cabeceras, alla prima domanda innocente il portavoce risponde con certo sarcasmo: “siamo ancora vivi, siamo ancora qui”. Ma il timore è grande, nel vedere che ogni due giorni una comunità vicina è costretta a lasciare tutto – case, galline, coltivi – e andare a cercare di sopravvivere nel caos di Buenaventura: “Già una volta, nel 2017, siamo stati costretti a farlo – spiega – e ora non vogliamo più andarcene.

Cercheremo di rimanere qui fino all’ultimo, anche se la situazione si fa ogni giorno più difficile: se chiudono anche il Litoral San Juan siamo completamente confinati, nelle mani dei paramilitari e con il rischio di rimanere nel mezzo degli scontri armati fra loro, l’esercito e l’ELN”.

DESPLAZADOS

A Buenaventura si trova un’ampia popolazione di sfollati che per diversi motivi ha già dovuto ricorrere al desplazamiento, come successo alla comunità indigena di Santa Rosa de Guayacán, ubicata lungo il Río Calima e che lo scorso 25 novembre è stata costretta a rifugiarsi nella città portuale dopo che i paramilitari delle AGC – Autodefensas Gaitanistas de Colombia – hanno fatto un’incursione nel villaggio.

A Buenaventura le cose non sono andate meglio: gli sfollati rappresentano la fascia della popolazione più esclusa e vulnerabile, per cui immancabilmente sono oggetto di reclutamento forzato da parte delle bande criminali locali sorte a seguito della divisione, a fine 2020, della struttura armata La Local in due fazioni, gli Shotas e gli Espartanos – tutte a loro volta legate ai paramilitari delle AGC e discepole di quello che fino al 2004 era conosciuto come il Bloque Calima.

Di fronte alla violenza e alle minacce, il 3 dicembre l’intera comunità composta da 154 persone si è dovuta trasferire una seconda volta all’interno del tessuto urbano, passando da un quartiere estremamente complicato – Barrio Olímpico – a un altro poco migliore – Miraflores, dove si trovano attualmente.

Nell’oblio assoluto delle istituzioni, le condizioni sono pressoché disumane: 154 persone ammassate all’interno di una casa, un solo bagno, acqua a disposizione a giorni alternati, mancanza assoluta di risorse economiche anche solo per mangiare.

In modo simile vivono migliaia di altre persone: benché a pochi mesi dalle elezioni presidenziali il governo di Duque non lo voglia ammettere, quella che è in corso nell’Occidente colombiano è una crisi umanitaria a tutti gli effetti. Lo dimostrano le cifre: lo scorso 20 gennaio si contavano 30 famiglie sfollate, il 21 gennaio si passò a 190 famiglie, il 24 gennaio erano 500 e il giorno dopo 780, per un totale di oltre 2000 persone.

CONFLITTO ARMATO

Tutto – o quasi, per usare un eufemismo – ha avuto inizio dopo che a metà del 2021 si è rotto il patto di non aggressione fra la guerriglia dell’ELN – Ejército de Liberación Nacional – e i paramilitari delle AGC: l’esercito e le stesse AGC si sono coordinate segretamente per affrontare l’ELN e obbligarlo a ritirarsi dalle zone sotto il suo controllo storico, una dinamica simile a quella vista più a nord nel Chocó ma anche in altre parti del paese, che sembra rispondere alla volontà dello Stato di intensificare il conflitto armato con la guerriglia e allontanare il più possibile un’eventuale ripresa delle trattative di pace.

Il risultato, in termini umanitari, è più che preoccupante: sfollamento e confinamento delle popolazioni indigene e afro-colombiane che vivono nel territorio, reclutamento forzato, omicidi selettivi, impossibilità di spostarsi lungo il fiume o nell’entroterra per pescare, cacciare o coltivare.

Per non parlare delle conseguenze psicologiche e sociali dovute al fatto di vivere nella paura e nella precarietà costanti, in cui la cosa più semplice da fare è quella di accusarsi fra vittime, come spesso accade fra indigeni e afro-colombiani.

Di fronte a questo panorama, la risposta dello Stato, finora, si è limitata a un’ulteriore militarizzazione del territorio, benché le comunità denunciano che quest’ultima non abbia ostacolato in alcun modo la mobilità e le operazioni dei paramilitari delle AGC.

Stessa cosa più a sud, lungo la costa pacifica più vicina ai dipartimenti del Cauca e Nariño, dove le battaglie si concentrano soprattutto con le dissidenze delle FARC riunite nel Comando Coordinador de Occidente.

In termini di prevenzione degli scontri armati, di rispetto dei diritti umani della popolazione che si trova nel mezzo del fuoco incrociato, di presenza istituzionale, servizi e aiuti umanitari, e infine di rispetto delle leggi con prospettiva etnica presenti nella Costituzione del 1991, invece, poco o nulla, a dimostrazione che la volontà del governo attuale è ben lungi dal creare le condizioni per una pace vera e stabile.

Il sospetto è che l’evacuazione forzata della popolazione dal territorio risponda in qualche modo ad altri interessi, fra questi favorire i commerci di sostanze illegali e sfruttare il sottosuolo attraverso mega progetti di “sviluppo”.

ELEZIONI E ACCORDI DI PACE

Il 2022 in Colombia, con i suoi 17 leader sociali assassinati fino ad ora, ha già dimostrato di essere in linea con quanto visto nel 2021, anche se i vari scenari dimostrano che il conflitto stia diventando anche più acuto: nell’oriente alla frontiera con il Venezuela è in corso un’altra ecalation da quando le dissidenze delle FARC – appoggiate secondo alcuni dall’esercito – hanno dichiarato guerra all’ELN.

Per il resto, il paese si prepara a votare per le elezioni legislative del prossimo 13 marzo, data in cui verranno eletti anche i 16 rappresentanti delle vittime del conflitto armato nella Camera de Representantes, un meccanismo interessante, seppur controverso, per dare voce a chi ha sofferto più di tutti.

Ciò malgrado, la domanda che ci si pone è come potranno votare le migliaia di persone desplazadas, a dimostrazione che a perdere sono sempre gli stessi.

La partita fra Colombia e Argentina si è conclusa con una sconfitta più o meno prevedibile e le speranze di qualificarsi ai prossimi mondiali sono appese a un filo; lo stesso, purtroppo, sembra potersi dire della pace in Colombia, dove pure un’eventuale vittoria della coalizione di centro sinistra Pacto Histórico alle elezioni presidenziali di maggio, difficilmente porterà a un reale cambiamento.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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