Che quella in Ucraina fosse una guerra lampo, forse, non lo credeva neanche Vladimir Putin: a meno di improvvise svolte diplomatiche, il conflitto che si sta svolgendo sul territorio della repubblica ex-sovietica sembra purtroppo destinato a protrarsi nel medio periodo.

Di certo, anche sullo scenario internazionale, si sta entrando ora in una diversa fase dello scontro, in cui alcune dinamiche tendono a stabilizzarsi e dallo “shock” iniziale si passa per molte parti in campo a una consapevolezza più “distesa” (per quanto tragica).

Così, anche l’esodo delle persone in fuga dalla guerra viene influenzato da un tale processo: dopo quasi tre settimane di flusso praticamente costante a ovest verso Polonia, Romania, Ungheria, Slovacchia e Moldavia, si può forse provare a tirare alcune prime conclusioni e ipotizzare qualche sviluppo futuro.

DAL PUNTO DI VISTA DI SIRET

Fin da subito, in Romania come altrove la mobilitazione è stata totale: «Alle prime luci del mattino dopo l’inizio dei bombardamenti, già una decina di abitanti del nostro villaggio si sono recate alla frontiera», ci racconta Alina Butnario, responsabile del dipartimento degli affari sociali presso il comune di Siret, al confine nord con l’Ucraina.

«E, in effetti, da lì a poco sarebbero cominciate ad arrivare migliaia di persone in fuga dalla guerra, che avevano bisogno di aiuto e sostegno. In brevissimo tempo, sono arrivate anche numerosissime associazioni, organizzazioni non governative, realtà sia locali che internazionali che si sono come “accalcate” al confine, ciascuno provando ad aiutare in tutti modi, dall’assistenza medica all’offerta di cibo e beni di prima necessità».

Anche approcciandosi in questi giorni verso la frontiera di Siret, l’impressione è proprio quella di una “sovrabbondanza” di sigle e gruppi che accolgono i profughi: dopo un’iniziale assistenza da parte dei vigili del fuoco e di traduttori volontari, chi arriva dall’Ucraina trova davanti a sé una fila di trecento metri di bancarelle israeliane che offrono zucchero filato, tende mediche e veterinarie, rappresentanti di ambasciate, camion del governo turchi dedicati agli adempimenti burocratici per i propri cittadini o alla preparazione di kebab… «L’accoglienza viene organizzata e gestita su numerosi livelli», continua a spiegare Alina Butnario.

Foto di Renato Ferrantini

«Dal punto di vista delle istituzioni, c’è il piano nazionale, quello regionale e infine locale che si intrecciano fra loro. Poi ci sono le ambasciate e i progetti finanziati da altri paesi e le organizzazioni non governative, dalle grosse realtà come Save the Children a gruppi più piccoli, senza distinzione: non è stato infatti stipulato alcun contratto specifico con nessuno in particolare, ma qualunque associazione può impegnarsi nell’accoglienza». 

Un contesto che, dunque, ha inizialmente creato una ”presenza eccessiva” di aiuto per i profughi nelle zone di confine, che non sempre andava a beneficio delle persone provenienti dall’Ucraina.

Ce lo conferma anche Radu Huzum, volontario della Caritas di Iasi che sta ora gestendo un centro di accoglienza nel paese di frontiera ricavato in un’ala dell’oratorio locale (circa 40 posti, che stanno però per essere aumentati grazie all’arrivo di letti a castello): «I primi giorni della guerra si è verificata un po’ di disorganizzazione, per cui le persone appena arrivate in Romania venivano subito “assaltate” da chi voleva dare loro una mano.

Questo rischia di essere controproducente: ora infatti si avvicinano giusto i membri dei vigili del fuoco e i traduttori ufficiali, di modo da capire bene quali siano le esigenze e cosa vogliano fare i profughi. In base a questo, poi, si decide verso quali associazioni possano essere indirizzati».     

FLUSSI E RIFLUSSI

Nella zona di Siret è davvero difficile quantificare il numero di volontari coinvolti nell’accoglienza, tante sono le realtà coinvolte, anche di natura informale. I vigli del fuoco sono stati chiamati a servire da tutto il paese, e contano quasi una ventina di pullman “fissi” al confine per poi trasportare le persone in fuga dalla guerra verso i centri di accoglienza e permanenza.

Questi ultimi, almeno a livello di edifici istituzionali, sono un totale di sette nell’area (un campo da calcio e una scuola a Siret, una palestra nella località di Milisauti più altre strutture, soprattutto a Suceva) con una capienza di circa 200mila posti.

Foto di Andrea Tedone

Il “ricambio” è molto rapido, visto che la maggior parte di chi arriva si ferma al massimo 32 ore per poi proseguire velocemente il proprio viaggio verso altre nazioni (dei quasi 150mila profughi arrivati in Romania, pare che solo il 10% si siano fermati nel paese).

Una simile dinamica è dovuta anche alla composizione sociale delle masse che nelle settimane iniziali della guerra hanno lasciato l’Ucraina.

È infatti possibile dire – sulla base delle testimonianze di chi si occupa dell’accoglienza lungo i confini – che le prime persone a fuggire siano soprattutto individui spesso “benestanti” dal punto di vista economico, con un’abitudine già consolidata allo spostamento al di fuori del proprio paese d’origine e inserite dentro reti di conoscenze internazionali.

Perciò – ci raccontano volontarie e volontari attivi nell’area di Siret – la più parte delle persone in fuga ha spesso le idee chiare sulla destinazione a cui vuole arrivare a ha già dei contatti sul posto, così come si ritrova a disposizione un budget economico che può facilitare lo spostamento (nonostante molti transiti interni alla Romania siano stati resi gratuiti e non solo).

Ecco perché la permanenza nell’area di Siret e della Bucovina è così breve, ed ecco anche perché negli ultimi giorni il “flusso” di persone dall’Ucraina sembra essere in calo (al momento, dei 2mila posti di capienza della rete di accoglienza, solo qualche centinaio sono occupati).

«Ma ci troviamo probabilmente solo in un cambio di fase», afferma ancora Alina Butnario. «Ciò che notiamo è che ora iniziano ad arrivare persone con meno disponibilità economiche e di diversa estrazione sociale rispetto a prima. È chiaro che, allo scoppio della guerra, chi ha maggiori mezzi riesce a scappare in maniera più veloce e che lo fa soprattutto chi ha anche maggiori certezze di potersi ricollocare all’estero. Ma è probabile che, dopo una piccola flessione, riprenderà di nuovo un esodo massiccio e avrà caratteristiche diverse e dovrà essere forse gestito in altre maniere».

Foto di Renato Frrantini

CAMBIAMENTI EMOTIVI

Parallelamente, sembra piano piano mutare anche la condizione sociale ed emotiva delle comunità di frontiera che sono impegnate nell’accoglienza.

In termini di solidarietà, la natura di “piccolo centro” di Siret o Suceva pare essere stato un vantaggio sinora: «Le comunità più ristrette hanno quasi sempre un grado maggiore di attivazione in queste situazioni», racconta Radu Huzum della Caritas. «Io sono venuto qua da Iasi e ho davvero trovato un sostengo fortissimo e diffuso, dai giovani agli anziani, dalle realtà religiosi a quelle istituzionali. Chiunque era desideroso di dare una mano come meglio poteva». In tutto ciò, gioca forse anche la vicinanza con la guerra e la spiazzante sorpresa che ha generato l’inizio del conflitto.

«Si è trattato davvero di qualcosa di impensabile e inaudito», rammenta Alina Butnario che i giorni precedenti ai primi bombardamenti era costantemente in contatto con colleghi delle amministrazioni ucraine d’oltre-frontiera, le quali non credevano alla possibilità di un’invasione.

«Penso che lo “shock” iniziale ha generato come reazione una volontà da parte del paese di partecipare all’accoglienza, di contribuire a mitigare gli effetti del conflitto. Sono stati giorni di grande agitazione, in cui tutti hanno dato il massimo – anche qui in comune – nonostante si dovesse comunque mandare avanti il lavoro ordinario. Ora sento che stiamo entrando in un periodo diverso: la guerra alle porte con tutto il suo dolore, l’arrivo dei profughi e le manifestazioni di sostegno stanno diventando parte della nostra nuova normalità, sono ormai un pezzo del nostro quotidiano».

Con la speranza, però, che questa “nuova normalità” finisca il prima possibile.    

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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