Alla fine, il giorno del giudizio rimandato per troppo tempo (e dunque troppe volte aggravato) sta per arrivare: grazie a una legge elettorale incostituzionale, a un taglio dei parlamentari dissennato e soprattutto a politiche di ingiustizia sociale che hanno gettato l’elettorato più povero tra le braccia dell’estrema destra, il 25 settembre la maggioranza (o perfino la totalità) dei seggi attribuiti nei collegi uninominali potrebbe finire sotto il controllo di una forza politica di matrice fascista decisa a vendicarsi della Costituzione antifascista del 1948.

Ci sono due modi per reagire: uno strumentale, e uno invece onesto.

Il primo (largamente praticato) porta a dire che ci vuole un’ammucchiata politica di tutti gli altri (follemente tranne gli odiati Cinque Stelle: come se la retorica della casa che brucia fosse compatibile con il rifiuto di alcuni pompieri…). Così una pelosa difesa della Costituzione sarebbe piegata a rimettere in sella chi in passato propose stravolgimenti presidenzialisti della Carta non dissimili da quelli che ora potrebbero realizzarsi (la Bicamerale di D’Alema, Prodi, Veltroni, Letta…); chi ha riformato malamente la Costituzione, a colpi di maggioranza (il Centrosinistra nel 2001), stravolgendone il progetto sociale (con l’introduzione del pareggio di bilancio ai tempi di Monti…) o mettendo le mani su un “intoccabile” principio fondamentale (lo ha fatto la maggioranza del Governo Draghi); e ancora chi ha provato a massacrarla (Renzi con la “riforma” del 2016), e chi ne ha contraddetto lo spirito, non attuandola o facendo addirittura il contrario (i residuati di Forza Italia imbarcati da Calenda, ma anche i protagonisti del Centrosinistra che hanno precarizzato il lavoro, fatto guerre, perseguitato i migranti, aumentato la diseguaglianza, la povertà, l’ingiustizia sociale…).

Il secondo modo, invece, sta nel distinguere due piani che non vanno confusi: quello delle alleanze con un comune progetto politico, e quello di un patto tecnico per provare a fermare la destra giocando secondo le (aberranti) regole del Rosatellum. Dunque, all’estrema destra rappresentata da Fratelli d’Italia, Lega e (in posizione ancillare) Forza Italia, dovrebbero contrapporsi due distinte alleanze: una di centro-destra (o di Agenda Draghi, se si preferisce) composta da Pd, Azione, Più Europa, Italia viva, e una di sinistra composta dal Movimento Cinque Stelle di Conte, Articolo Uno, Sinistra Italiana, Possibile e dall’Unione Popolare di De Magistris. Queste due alleanze dovrebbero essere concorrenziali nel proporzionale, ma stipulare un patto tecnico di desistenza nei collegi uninominali, in modo che contro a ogni candidato di estrema destra se ne schieri solo uno di questo patto costituzionale. La forma sarebbe quella (obbligata) di una coalizione unica, ma la sostanza esplicita, e dunque la campagna elettorale, sarebbero invece quelle di due progetti concorrenti, che si accordano per dividersi, con una desistenza politica di fatto, i collegi uninominali (assegnandoseli in base ai sondaggi) in forza dell’unico valore (speriamo) comune: l’antifascismo. E siccome non si può chiedere a un elettore di sinistra di votare Renzi o Gelmini, né a uno di centrodestra di votare De Magistris o Fratoianni, i leaders dovrebbero candidarsi nel proporzionale, lasciando i collegi uninominali a personalità riconosciute, o almeno non così divisive. Del resto, a fare sacrifici in nome della Costituzione non possono essere solo gli elettori, costretti per l’ennesima volta a tapparsi ogni orifizio. Negli scorsi giorni hanno proposto soluzioni analoghe Antonio Floridia, Gaetano Azzariti e Domenico Gallo, e si è spiegato che questo potrebbe avvenire «dichiarando subito e in maniera esplicita il proprio impegno, quale che sia l’esito delle elezioni, a difendere la Costituzione da ogni progetto di trasformazione che punti a indebolire ulteriormente la forma di governo parlamentare» (Libertà e Giustizia).

Per affrontare una campagna elettorale come questa, le forze del patto costituzionale dovrebbero avere una grande maturità: dividendosi anche duramente sull’analisi del passato e sul progetto per il futuro, ma prendendo contemporaneamente atto che la pregiudiziale antifascista e la tutela della democrazia sono un irrinunciabile bene comune. La coalizione unica contro il fattore M, invece, non funzionerebbe: perché non è più possibile predicare l’usuratissimo voto utile (finora invariabilmente utile solo per chi lo prende), puntare tutto sulla paura e chiedere di dimenticare il disastro di un centro-sinistra che ha sfigurato il Paese fino al punto di lasciarlo a una destra di matrice fascista. Invece, la campagna elettorale deve poter mostrare non due, bensì tre, progetti alternativi: lasciando spazio a una coalizione decisa a cambiare il sistema, che riesca a portare al voto i disillusi, i poveri, i sommersi.

La Resistenza non fu solo lotta contro il fascismo, ma lotta per un ordine nuovo libero e giusto: se dimentichiamo questo, se giochiamo solo contro, se chiediamo di votare per chi (forse) è appena un po’ meno mostro dei mostri, allora siamo condannati a perdere.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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