Domenica ci saranno le elezioni e l’esito pare essere prevedibile. Lo sfondamento elettorale della destra metterebbe in discussione la costituzione, e le politiche che si adotterebbero per far fronte alla già esistente instabilità economica e sociale non sono rincuoranti. In attesa dell’annuncio del nuovo governo, immaginiamo le azioni dopo il 25 settembre

Ci stiamo avvicinando alla scadenza elettorale del 25 settembre con la stessa disposizione con cui si va a un appuntamento con il destino. L’annunciata vittoria della coalizione di centro-destra trainata dall’impetuosa affermazione di Fratelli d’Italia, ha assunto ormai le parvenze di una profezia che si auto-avvera. Del resto, l’esito pronosticato dai sondaggi è stato ampiamente favorito da un insieme di scelte rovinosamente adottate dal campo avversario.

L’incontrastata persistenza di una legge elettorale voluta dal Pd di Renzi e confermata da Letta, che privilegia nei collegi uninominali le grandi coalizioni, dove le destre confluiscono facilmente a differenza delle sinistre e che inoltre, consegnando senza preferenze la formazione delle liste alle segreterie dei partiti, finisce per favorire l’astensionismo per sfiducia.

La scelta poi di far saltare il “campo largo” – unica ipotesi che sul piano strettamente elettorale avrebbe potuto, se non ribaltare i rapporti di forza, perlomeno contenere la sconfitta nella parte uninominale – assume propriamente i lineamenti di una tattica suicida.

Tattica, questa, cui non sembra corrispondere alcuna strategia esplicita: la ricerca da parte del Partito Democratico di un’alleanza “politica” con il centro (poi fallita) con la contemporanea stipula di un accordo meramente “elettorale” con Sinistra Italiana e Verdi («non governeremo insieme», Letta al “Corriere”), l’adesione alla fantomatica Agenda Draghi unita al tardivo rinnegamento del Jobs Act e della Terza Via blairiana, definiscono i contorni di una linea politica che, nel mentre chiude all’ipotesi del centro sinistra invocando il più inutile dei voti utili, indica la fase terminale di quel lungo processo che ha portato il Partito Democratico a dismettere qualsiasi “formula” e “sostanza” politica che non sia la pura governamentalità, di cui la forma dei governi tecnici e di unità nazionale figura come la realizzazione più piena e coerente.

In questo quadro, l’assenza di volontà nel percorrere altre vie – come quella che avrebbe potuto vedere federare le forze politiche che hanno con contenuti progressisti criticato l’Agenda Draghi, quali Sinistra Italiana, Cinque Stelle e Unione Popolare – consegna il voto della sinistra a un alto grado di frammentazione.

UN NUOVO CONTESTO PER IL CICLO REAZIONARIO

Seppure l’affermazione della destra, ampiamente prevista dai sondaggi, e la decomposizione della restante offerta elettorale renderebbe comprensibile una disposizione fatalista e un comportamento di defezione rispetto al voto, il salto che rischia di concretizzarsi in Italia il 25 settembre spinge però verso altre considerazioni. Non solo perché lo sfondamento elettorale della destra comporterebbe la possibilità di una revisione unilaterale degli assetti costituzionali, ma anche e sopratutto per la particolare configurazione politica ed economico-sociale in cui tale vittoria potrebbe innestarsi.

In un brevissimo lasso di tempo, infatti, il quadro emerso in Europa è tanto rapidamente quanto radicalmente mutato: la mutualizzazione del debito e il ricorso a politiche fiscali espansive che nei mesi immediatamente successivi allo scoppio dell’emergenza socio-sanitaria avevano consentito ai governi europei misure di investimento e di protezione sociale e l’affermarsi di una benché limitata e contraddittoria “convenzione” ecologica, lascia ora il campo a un ripiegamento di cui possiamo solo vagamente immaginare le conseguenze.

Nonostante, specialmente in Italia, quelle politiche fossero state perlopiù improntate a una forte frammentazione e particolarmente sbilanciate sulla difesa delle imprese e dei ceti proprietari, quel rio-orientamento della politica comunitaria aveva in ogni caso segnato una discontinuità con il decennio precedente, ampliando significativamente il campo d’azione degli Stati.

Oggi, l’assunzione di politiche monetarie restrittive della BCE e della FED per rispondere all’aumento dell’inflazione e il possibile ritorno di regole stringenti per il contenimento dei debiti pubblici nell’Unione Europea, delineano i contorni di un nuovo scenario di instabilità economica e sociale nel quale alle spinte recessive, all’aumento della disoccupazione e alla riduzione dei salari si assocerà una riduzione secca dei margini di manovra degli Stati.

Inoltre, la guerra iniziata il 24 febbraio ha avuto conseguenze rilevanti sulla ridefinizione del campo politico all’interno dei singoli Stati, divenendo la collocazione negli schieramenti geopolitici che si stanno confrontando in Ucraina il principale criterio di legittimazione politica delle forze partitiche.

In questo quadro, il rispetto dei vincoli di bilancio e la lealtà atlantica sono bastati a rimuovere le pregiudiziali non solo antifasciste, ma anche quelle anti-populiste che avevano dominato i precedenti dieci anni del dibattito politico italiano, spingendo Enrico Letta a chiudere l’ipotesi del “campo largo” con i Cinque Stelle e permettendo a Giorgia Meloni di “civilizzarsi” davanti alla stampa nazionale e internazionale.

 La recente conferenza stampa nella quale Mario Draghi confida ai giornalisti la speranza di una continuità negli indirizzi del Ministero dell’Economia (se non addirittura con lo stesso ministro Franco) concentrando le bordate sulla scelta dei referenti in Europa, condensa in modo esemplare come l’establishment neoliberale italiano si prepara a supportare e a vincolare il nuovo governo in arrivo. Tuttavia, l’idea molto diffusa che la camicia di forza imposta sugli aspetti economico-finanziari e geopolitici sia sufficiente a sterilizzare preventivamente le conseguenze politiche e sociali dell’affermazione di Giorgia Meloni (limitandone il residuo campo di manovra alla “culture war”,  cioè al blocco o allo smantellamento di alcuni diritti civili) è a dir poco inconsistente.

In primo luogo perché, a differenza del periodo in cui Matteo Salvini è stato Ministro degli Interni, i nuovi vincoli posti l’establishment hanno come rovescio della medaglia la legittimazione politica e mediatica di un partito post-fascista come Fratelli d’Italia la cui affermazione elettorale rischia di costituire un pericoloso precedente per l’apertura alle destre estreme e xenofobe nella formazione di altri governi europei.

In secondo luogo, perché il perimetro stretto sul fronte delle disponibilità finanziarie con cui un possibile governo presieduto da Meloni dovrà destreggiarsi per affrontare gli effetti devastanti prodotti dall’inflazione, dalla crisi energetica e dal rialzo dei tassi d’interesse, rischia di incidere sulla materialità dei rapporti di classe, di genere e di razza, ingenerando un’involuzione radicale dello Stato verso un modello sociale e di cittadinanza fortemente selettivo e gerarchico, imperniato sulla proiezione di una comunità nazionale, laboriosa, demograficamente prolifica e indifferente alla catastrofe climatica.

DOPO IL 25 SETTEMBRE

Occorre dunque pensare alle elezioni come una fase all’interno di un più lungo ciclo reazionario cui il mutato quadro economico e geopolitico conferisce caratteristiche peculiari, solo in parte simili a quelle che abbiamo conosciuto nel recente passato.

In questa situazione, il pericolo maggiore è che a questa torsione dai caratteri autoritari e dalle ambizioni plebiscitarie – come quelle che vorrebbero imprimersi nella modifica in senso presidenziale della costituzione – rimanga come unica opzione a fare da contraltare una concezione depoliticizzata, tecnocratica e cetuale della democrazia, come quella incarnata in prima linea dal cosiddetto Terzo Polo di Calenda e sostenuta nelle retrovie dal Partito Democratico.

Se non è affar nostro consigliare dove indirizzare a sinistra il voto, più importante è iniziare a pensare cosa fare dopo il 25 settembre.

Da un lato, la costruzione di un’opposizione sociale dopo le elezioni spinge ad accelerare e ad approfondire la convergenza e intersezione delle lotte attuali e potenziali, consapevoli che la sfida posta dall’intreccio delle diverse crisi che stiamo attraversando, necessita di uno sforzo a un tempo teorico ed organizzativo. Dall’altro lato, favorire quanto possibile dinamiche di ricomposizione e federazione dei frammenti delle forze politiche della sinistra esistente in uno spazio politico autonomo e su un programma chiaro su guerra, emergenza climatica e sociale.

Il precipitare della situazione rende in questo momento inefficace una politica dei due tempi per i movimenti sociali (prima le lotte, poi la rappresentanza…). È invece percorrendo questo doppio binario che, forse, possiamo rendere “imperfetta” la tempesta che sta arrivando.  

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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