L’orologio continua a ticchettare, come se annunciasse una minaccia incombente. Negli Stati Uniti, ma anche in Europa, assistiamo a crescenti disparità di ricchezza, a una grave crisi abitativa ed energetica, al transumanesimo che galoppa all’orizzonte, all’inciviltà eroica e alla costante minaccia di virus, le cui cure potrebbero essere peggiori delle malattie.

La politica globale (così come l’economia) ha sembianze stranamente apocalittiche in questi ultimi tempi e, nei nostri piccoli mondi, in molti siamo così persi e lontani dalle comodità delle nostre vite pre-pandemiche da non sapere quale sia la fine che ci aspetta o cosa ci riserverà il futuro.

La giornalista investigativa Trish Wood ha recentemente scritto che in Occidente, e più precisamente negli Stati Uniti, stiamo vivendo la caduta di Roma ‒ che pure ci viene venduta come una benedizione.

Allora mi chiedo: stiamo davvero decadendo, a partire dagli Stati Uniti, come è successo a Roma? È possibile che la nostra civiltà, la civiltà occidentale, sia sull’orlo del collasso? Magari non si tratterà di un crollo imminente, ma stiamo forse muovendo quegli stessi primi passi che le civiltà anteriori alla nostra hanno fatto prima della loro rovina? Subiremo il destino degli Indios, dei Vichinghi, dei Maya e delle fallite dinastie cinesi?

Prima di poter rispondere, la mia “parte filosofica” deve chiarire a se stessa cosa intendiamo per civiltà e cosa significherebbe se “quella cosa” crollasse. Sarete d’accordo con me sul fatto che questo sia un ostacolo concettuale abbastanza difficile da superare: il termine civiltà (dal latino civitas, che significa un corpo di persone) fu usato per la prima volta dagli antropologi per riferirsi a una “società fatta di città” (come furono Pilo, Tebe e Sparta di Micene, per esempio). Le civiltà antiche erano tipicamente insediamenti non nomadi con complessi concentrati di persone che avevano adottato una divisione del lavoro, avevano sviluppato un’architettura monumentale, strutture di classe gerarchiche e presentavano sviluppi tecnologici e culturali di una certa rilevanza.

Ma qual è la nostra civiltà? Sarete certamente d’accordo che c’è una linea netta che unisce il modo in cui Maya intendevano la convivenza e quello dei Greci, con una distanza tra le due paragonabile all’oceano che divide i due rispettivi continenti. Il concetto di civiltà occidentale, radicato nella cultura emersa dal bacino del Mediterraneo oltre 2000 anni fa, è ancora significativo oppure la globalizzazione ha reso insignificante qualsiasi distinzione tra le civiltà contemporanee? “Sono un cittadino del mondo”,  scriveva Diogene nel IV secolo A.C. ‒ ma ovviamente il suo mondo non era vasto quanto il nostro.

Ora passiamo alla seconda questione: il collasso della civiltà. Gli antropologi in genere lo definiscono come una rapida e duratura perdita di popolazione, complessità socioeconomica e identità.

Subiremo una massiccia perdita di popolazione o di complessità socio-economica? Forse. Ma non è questo che mi spaventa. Quello di cui mi preoccupo davvero è la nostra perdita di identità. Temo che abbiamo perso la “trama”, come talvolta si usa dire, e che, con tutta la nostra attenzione dedicata alla capacità della scienza di salvarci, abbiamo perso i nostri ideali, il nostro spirito, le nostre ragioni d’essere. 

Temo che stiamo soffrendo quella che Betty Friedan ha chiamato “una lenta morte della mente e dello spirito”. Temo che il nostro nichilismo, il nostro façadismo (pratica in cui un edificio è quasi interamente sostituito, con solo la sua facciata originale o ricostruita, o parte di essa, preservata), il nostro progressismo stiano contraendo un debito che nel futuro potremmo non essere in grado di pagare.

Come scrisse l’eminente antropologo Sir John Glubb, “L’aspettativa di vita di una grande nazione, a quanto pare, inizia con una violenta, e solitamente imprevista, eruzione d’energia, e finisce con un abbassamento degli standard morali, il cinismo, il pessimismo e la frivolezza”. Si avete letto bene: frivolezza ‒ certamente uno dei segnali più comuni, incontrovertibili e condivisi dalle civiltà in decadimento.

Pensiamo a una civiltà come al gradino più alto di una scala, l’ultimo, con tutti gli scalini sottostanti crollati. La civiltà occidentale odierna è costruita in gran parte sugli ideali fondamentali dell’antica Grecia e di Roma, che hanno persistito molto tempo dopo la scomparsa delle loro strutture fisiche e dei loro governi. Ma se tali ideali rimangono ancora validi è perché noi li troviamo significativi! Resistono attraverso la letteratura e l’arte, la conversazione e i riti. Si manifestano nel modo in cui ci sposiamo, in cui scriviamo l’uno dell’altro e in cui ci prendiamo cura dei nostri malati e degli anziani. Più banalmente, pensiamo al film “Il Gladiatore”: totem cinematografico che sottende, tra l’altro, l’auspicio di un ritorno dall’Impero alla Repubblica. Ritorno auspicato proprio perché l’Impero iniziava ad assumere i tratti della barbarie.

Una lezione che la storia cerca di insegnarci è che le civiltà sono sistemi complessi ‒ di tecnologia, economia, relazioni estere, immunologia e, appunto, civilizzazione ‒ e i sistemi complessi spesso sono destinati al fallimento. Il crollo della nostra civiltà è quasi certamente inevitabile; le uniche incognite sono quando, perché e cosa ci sostituirà.

Ma questo ci porta a un altro punto. All’inizio del suo utilizzo, gli antropologi iniziarono a usare “civiltà” come termine normativo, distinguendo la società civilizzata dai gruppi tribali o barbari. Le civiltà sono sofisticate, nobili e moralmente buone; altre società sono incivili, arretrate e non virtuose.

Ma la vecchia distinzione tra civiltà e barbarie ha assunto una nuova forma nel XXI secolo. Sono i nostri leader, i nostri giornalisti e i nostri professionisti che ignorano gli standard del discorso razionale, che istituzionalizzano l’odio e incitano alla divisione.

Spostando lo sguardo verso gli Stati Uniti, il centro dell’Impero, ricordiamo Walt  Whitman, che pensava che la sua stessa America del XIX secolo stesse decadendo: “Dobbiamo guardare meglio i nostri tempi e scrutarli con sguardo indagatore, come un medico che diagnostica una malattia profonda”.

Se la nostra civiltà crollerà, non sarà a causa di un attacco esterno, per mano di beduini che caricheranno dal deserto. Sarà a causa di quelli tra noi che, come parassiti, ci stanno distruggendo dall’interno. La nostra civiltà, e in particolare la società statunitense, potrebbe crollare e ciò potrebbe essere dovuto a un numero qualsiasi di fattori ‒ guerra, economia, disastri naturali ‒ ma l’assassino silenzioso, quello che alla fine potrebbe prenderci, è la nostra stessa catastrofe morale.

Il problema ultimo, quindi, non è interpersonale. É intrapersonale. Se la nostra civiltà sta crollando, è perché qualcosa in ognuno di noi, almeno ciò che nella più ampia parte contribuisce a definire la cultura di massa condivisa, sta crollando. Dobbiamo prima ricostruire noi stessi, mattone dopo mattone, se vogliamo avere la possibilità di ricostruire le nostre società. Ovvero “noi stessi insieme

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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