I rave party non sono propriamente delle messe cantate in chiesa e, quindi, non ci si aspetta di veder cantare file di cori angelici o di assistere a processioni di fedeli compìti e pii.

Ma farli divenire il nemico pubblico numero uno per la sicurezza civile e sociale, per la salute personale e pubblica e, addirittura, per l’equilibrio sostenibile dell’ambiente, è quel tipo di eccesso ideologico che la destra, da sempre, dimostra di avere nei confronti di spazi di libertà in cui può accadere certamente che vi sia anche qualche eccesso.

Invece di disciplinarne gli svolgimenti, di regolamentarli e permettere ai giovani (ed anche ai meno giovani che vi partecipano) di potersi organizzare e condividere con lo Stato un metodo di gestione di questi eventi, si passa immediatamente alla repressione, al divieto, alla punizione, al sanzionamento legislativo. Anzi, decretizio.

Ci sarebbe, secondo il ministro dell’Interno, ed anche secondo la Presidente del Consiglio dei Ministri, una urgenza, una tale impellenza da non consentire al governo di seguire il normale iter di formazione delle leggi, bensì scrivere un provvedimento dai tratti emergenziali che ha, come primo effetto voluto e cercato, quello di impressionare la gente e richiamare l’attenzione sulla efficienza del nuovo esecutivo in materia di contenimento dell’eccezionalità negativa, di ciò che non rientra nei buoni, virtuosi canoni del perbenismo e del benpensatismo di una bella fetta di popolazione.

Così, tra il reintegro de qualche migliaia di medici non proprio convinti che la scienza avesse ragione nel combattere la pandemia con i vaccini, e tra il peggioramento dei criteri per l’accesso alle misure cautelari sull’ergastolo ostativo (che non vale solo per mafiosi, stupratori e pedofili seriali), il primo punto della politica delle destre al governo del Paese è il pugno di ferro contro ciò che contraddice il moralismo conservatore storicamente terreno di incontro dei nostalgismi legati al binomio “legge e ordine“.

Una delle signore che partecipano alla marcia di Predappio, quella in cui si canta “Giovinezza” e si inneggia platealmente a Mussolini con sovrabbondanza di saluti romani e inni al regime, lo dice apertamente, senza sapere di avere un punto di grande forza in comune con la politica del nuovo ministro dell’Interno: «Il fascismo garantiva l’ordine. E oggi un po’ più di ordine ci vuole, no?».

Regala l’interrogativo della sua affermazione ad un tempo in cui gli italiani non hanno più tanto bisogno di marciare in orbace e fez, portando labari e gagliardetti con sopra scritto “Me ne frego“, ma più spicciamene votano per una destra estrema che, infatti, dimostra tutta questa sua estremizzazione nei confronti della libertà di riunione e anche di divertimento, reprimendo e mettendo nel decreto anti-rave pene veramente spropositate.

Fino a sei anni di carcere e 10.000 euro di sanzione per chi organizza e gestisce queste feste a cui non verrebbe mai in mente di partecipare, ma non per questo debbono essere categoricamente vietate. La storia anche recente ci dimostra che, laddove già esistono legislazioni di netta proibizione e contrasto del fenomeno, ci sono quasi più rave party ora rispetto al passato.

Ritorniamo sempre nello stesso cortocircuito: il proibizionismo non ferma ciò che proibisce. Molto più semplicemente, rende illegale ciò che poteva invece essere legalizzato e, come nel caso delle droghe soprattutto pesanti, è il primo alleato di un florilegio di commerci e di diffusione delle sostanze stupefacenti da parte delle principali organizzazioni criminali internazionali ed italiane.

Vi sono pure due pesi e due misure nel trattare, da un lato la manifestazione apertamente illegale dei fanatici nostalgici del regime criminale di Mussolini; dall’altro nello sgomberare quattromila giovani che si stavano divertendo, occupando per alcuni giorni un’area disabitata, isolata, dove il capannone diviene improvvisamente “pericolante” per aiutare politica e polizia a dare un senso all’allontanamento, alla liquidazione dell’evento.

Si arriva così alla fine di quella che viene considerata una “anomalia” nei confronti di quella cultura della legalità che la destra interpreta non come avamposto del dialogo tra istituzioni e cittadini, ma come esclusivo fenomeno impositivo e, quindi, repressivo.

Questa vicenda del rave party di Modena assume così i contorni di un fatto paradigmatico, perché mostra fin da subito quale è il modus operandi con cui il governo intende gestire le manifestazioni, le forze dell’ordine nei confronti delle stesse e persino il diritto penale che viene ad essere protagonista di una radicale riforma della legislazione sull’onda di una dichiarazione di emergenzialità veramente inappropriata, improvvida e oggettivamente pretestuosa.

Milioni e milioni di italiani che hanno votato per Giorgia Meloni, per la destre e, forse, anche una parte che ha votato altrove, plaudono certamente ad uno Stato che usa una coercizione scambiata per risolutezza, una autorità scambiata per determinazione contro qualche migliaio di ragazze e ragazzi incorniciati nel perimetro pregiudiziale della droga e dell’alcool che girano in quelle feste dove ci si sfinisce di musica, dove si tira oltre il tardi, dove ci si sballa come se non vi fosse un domani.

E non sarebbero questi dei buoni motivi per regolare i rapporti tra Stato e giovani proprio a riguardo dei raduni liberi e semi-clandestini, portandoli alla luce del sole, facendo magari così perdere loro un po’ di quello strano fascino ribellista del ritrovarsi illegalmente in un terreno, sotto un capannone disadorno e decadente, per fare musica a tutto volume e stornarsi di birre e anfetamine?

Non si tratta di far diventare i rave party degli eventi simili ai concerti propriamente intesi. Non lo sono per loro natura e non lo potrebbero essere. Ma, ogni tanto, lo Stato, quindi il governo della Repubblica, potrebbero interpretare il ruolo di padre e madre aperti alla comprensione dell’evoluzione giovanile, in particolare se questa intende fuoriuscire dai canoni della conformità, della tradizione, di una normalità che non è mai uguale a sé stessa.

Regolare, disciplinare attraverso un dialogo costante e non fare decreti che dispensano anni di carcere, sarebbe un bel modo per comunicare una inversione di tendenza da parte di una destra che afferma di non essere più quella nostalgica del ventennio mussoliniano, delle proibizioni a tutto tondo, della repressione a tutto spiano. Invece il canovaccio su cui si stende il copione politico dell’estremismo post-fascista è sempre lo stesso.

Cambiano i tempi, ma i vizi sono duri a morire. Anche quelli del Presidente del Senato che, alla domanda de “La Stampa” se festeggerà il 25 aprile prossimo, risponde: «Dipende». Da cosa? Ecco qui: «Non sfilerò nei cortei per come si svolgono oggi, perché lì non si celebra una festa della libertà e della democrazia ma qualcosa di completamente diverso, appannaggio di una certa sinistra».

Non è certo colpa nostra se i fascisti non si possono riconoscere nell’antifascismo storico e nemmeno in quello costituzionale. Non è certamente colpa nostra se, nemmeno dopo Fiuggi, molti ex dirigenti del Movimento Sociale Italiano, assurti alle più alte cariche dello Stato, sono rimasti fedeli ad un armamentario ideale fatto di pregiudizi, discriminazioni e invettive contro ogni tipo di diversità, di alterità e di uguaglianza che invece la Repubblica tutela e garantisce (o almeno dovrebbe attraverso chi, di volta in volta, la rappresenta in seno alle istituzioni).

La Russa vorrebbe un 25 aprile altro dal 25 aprile stesso, qualcosa di meramente formale, che sia un giorno in cui non si celebra la Liberazione del Paese dal nazifascismo ma, magari, in cui si superino sia il fascismo sia l’antifascismo. Inaudito, come sempre. Equiparare, normalizzare, ridurre il portato storico, politico, sociale, civile e morale della Resistenza per farne soltanto qualcosa da affidare al passato e non uno dei cardini quotidiani della convivenza del popolo italiano con sé stesso.

Superare il fascismo? Proprio il 25 aprile del 1945 si avvia quel processo di superamento, ma mai di rimozione di ciò che è stato e ha rappresentato per quella nazione che i “patrioti” meloniani dicono di amare: repressione, violenza a tutto spiano, botte, olio di ricino, morte e stragi di massa, razzismo, segregazione, deportazione, guerra e distruzione del Paese in cinque, lunghi, lunghissimi anni di guerra.

Prendere le distanze dall’antifascismo, quindi da un 25 aprile antifascista e repubblicano, vuol solamente confermare quanto sia ancora intrisa una certa attuale classe dirigente di destra di tutta una serie di disvalori che negano nei fatti i princìpi fondamentali della Repubblica italiana senza negarli a parole.

La narrazione si discosta dai comportamenti quel tanto da permettere di poter essere considerati “recuperabili” ad un piano democratico, ad una forma di dialogo e di dialettica comune in cui emergano delle condivisioni ragionate a cui addivenire, prima o poi.

Ma tanto le parole di La Russa sul 25 aprile quanto quelle di Meloni su Predappio, per cui si tratta di una manifestazione che «politicamente è una cosa distante da me in maniera molto significativa». Perché non dire invece che è un rituale inaccettabile che viola le leggi dello Stato, che evoca lo spettro di un ventennio assimilabile ad un omicidio plurimo di massa lungo tutti i lustri che ha attraversato?

Perché non condannare invece di distanziarsi soltanto dalle camicie nere e dai gagliardetti degli “arditi d’Italia“? Perché non dire apertamente che il governo si impegnerà a mettere fine a quelle carnascialesche esaltazioni di una dittatura totalitaria che mandò a morire migliaia di italiani in guerra e in Germania nei campi di sterminio, attraverso Fossoli, il Brennero e la Risiera di San Sabba?

Perché non festeggiare il 25 aprile accanto agli striscioni dell’ANPI, dell’ANED e di tutte le associazioni che rappresentano la continuità con la lotta partigiana e resistenziale? Sapete perché tutto questo non è possibile? Semplicemente perché questa destra non appartiene alla cultura costituzionale e repubblicana, ma se ne serve, fa proprio anche il concetto di democrazia e di liberalismo, per conquistare, mantenere e consolidare il potere.

Un potere avuto altre volte, ed oggi ancora di più, attraverso la legittimazione popolare, con il voto liberamente espresso, nonostante la distorsione perpetrata dalle leggi elettorali che impediscono alle minoranze di avere accesso alle Camere, alla rappresentanza di chi non si riconosce nelle cosiddette “grandi formazioni poliiche“.

Per poter condannare il fascismo bisogna non essere fascisti. Per poter abbracciare l’antifascismo bisogna, quindi, essere, sentirsi profondamente antifascisti. Non si può chiedere a chi per tutta la vita ha portato croci celtiche al collo, a chi ha i busti di Mussolini in casa e le effigi della X Mas appese in salotto, di diventare i paladini della democrazia e di festeggiare il 25 aprile come festa della Liberazione.

Chi oggi governa questo Paese è una anomalia permessa dalla debolezza strutturale di un “arco costituzionale” moderno che ha ceduto su importanti cardini della vita democratica e sociale.

L’Italia, quindi il suo popolo, sono stati progressivamente sganciati da un legame che pareva ormai indissolubile: quello tra la storia contemporanea e un presente che la perpetuasse ad iniziare dal rispetto del mondo del lavoro, di quello della scuola, di quello della cultura e della memoria, di quello di ogni ambito sociale e civile che fosse messo a tutela e presidio delle debolezze e delle fragilità di ogni cittadino, della comunità intera.

I valori civili sono stati scambiati con la voglia del governismo a tutti i costi e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: le destre estreme a Palazzo Chigi con sottosegretari che, per qualche invito ad un addio al celibato, vestivano la divisa nazista con tanto di bracciale rosso e svastica in bella evidenza sull’avambraccio; oppure con richiami ad Arnaldo Mussolini piuttosto che a Falcone e Borsellino per la re-intitolazione di un parco pubblico…

Potranno sembrare piccolezze, ma, come diceva Totò, «è la somma che fa il totale». E la somma, oggi, sono le prime decretazioni di urgenza contro i rave party: il ritorno dell’autoritarismo attraverso il binomio della “legge” e dell’”ordine“. Il primo biglietto da visita del nuovo “governo dei patrioti“.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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