Cosa farai da grande? E’ la classicissima domanda che un po’ tutti ti fanno quando sei adolescente, quando iniziano a balenare nella testolina di ognuno sogni, desideri, voglia di diventare questo o quello, di somigliare a Tizio piuttosto che a Caio o di cambiare anche repentinamente il desiderio evolutivo ed essere più simile a Sempronio.

Solitamente si risponde con tutta l’innocenza del caso, rimanendo sul vago delle opzioni uguali e contrapposte: voglio fare il macchinista ferroviere oppure l’ingegnere informatico. Nessun nesso logico tra i mestieri, ma ai bambini piace essere utilmente illogici, per poter conservare quella speciale unicità che li caratterizza e ne fa qualcosa di straordinariamente estraneo alle brutture e alle disillusioni che regala la vita che attende soprattutto loro.

Crescendo, si sa, si finisce col fare quasi sempre quello che non sie era messo mai nemmeno in conto di fare e ci si sorprende, a volte, delle proprie qualità nascoste, tirate fuori magari dall’inconscio inconsciamente, mostrate con la sottile arte psichica dell’istinto, dell’intuizione, della voglia che alberga in noi e ci spinge, apparentemente non si sa come, verso una direzione. Senza un motivo, senza un perché.

E’ un po’ quello che accade al PD del dopo-voto, dell’inizio della partita congressuale e di un 2023 in cui gli appuntamenti con le elezioni amministrative iniziano a farsi sentire nel dibattito politico. Soprattutto nel campo delle opposizioni che – dovrebbe almeno questo essere una specie di vantaggio non richiesto – non hanno l’onore e l’onere di governare.

I democratici, se gli chiedi cosa intendono fare da grandi, la migliore risposta che ti possono dare è che lo sono già ma che devono rimettere in discussione tutta la loro vita, farne un impietoso bilancio e poi, soltanto dopo questo bagno catartico, questo lavaggio di panni in Arno, questo eterno ritorno nietzschiano, potranno ritrovare sé stessi, tornando alle origini.

Anche se non si sa affatto quali siano le origini più peculiari del PD, visto che la sua nascita e la sua formazione affondano in un dualismo sincretico che ha coniugato socialdemocrazia imperfetta all’italiana con un popolarismo democristiano, un cattolicesimo di base che, pur convergendo in un nuovo progetto politico inteso come erede del progressismo italiano, non ha sottolineato il carattere sociale che avrebbe potuto mettere al centro del proprio programma di lotta e di governo.

Ha assunto invece i connotati del nuovo punto di riferimento delle classi dirigenti, del mondo dell’impresa che non guardava al centrodestra come approdo sicuro per la tutela dei propri privilegi.

E per questo, pretendendo di tenere insieme le regioni del lavoro e quelle del padronato e della finanza, ha finito con lo smarrire qualunque fisionomia di partito vicino ai ceti meno abbienti e più deboli, ed ha, di contro, con la partecipazione da protagonista di governi tecnici e politici dei più differenti colori, creato per sé stesso un campo tutt’altro che progressista che ha, comunque, continuato a spacciarsi – grazie all’aiuto di giornali e televisioni, avvezzi al semplificazionismo massimo (ed utilitaristico) – come “forza di sinistra“, nonostante l’elettorato lo riconoscesse sempre meno in quanto tale.

La contesa ultima, poco prima del voto del 25 settembre, è avvenuta nel perimetro geopolitico del neo-centrismo, dopo il matrimonio morganatico con il draghiamo che ha tagliato fuori, ennesimamente, ogni possibilità per il PD di essere anche solo percepito come forza progressista.

L’anti-strategia lettiana dell’autosufficienza, della composizione di una coalizione a totale attrazione gravitazione liberista, fondata sulla parola d’ordine della continuità con la fantomatica “Agenda Draghi“, ha aperto l’attuale fase di crisi verticale che i democratici attraversano con il timore che il congresso si trasformi in una disfida vicendevole tra candidati alla segreteria senza veri contenuti riformisti, senza un cambiamento radicale della direzione politica (in tutti i sensi).

Per quella porzione politico-sociale di Paese che è la tanto vituperata “sinistra radicale“, preferibilmente appellale come “sinistra di alternativa” o “anticapitalista“, non possono esserci grandi tentazioni di rivalutazione di un possibile dialogo con un nuovo centrosinistra, perché la formula e il progetto politico si sono dimostrati fallimentari sul piano tanto riformistico quanto progressista.

In tutti questi anni, a fronte delle concessioni fatte al teorema liberista del rafforzamento dello Stato solo in chiave di sostegno alla classe dirigente, si sono privatizzati tutti i settori chiave del pubblico e si è costretta all’inedia quel che di sociale rimaneva entro i confini della politica italiana, riducendo il Parlamento – oltre tutto – a mero esecutore delle decisioni di governo.

Nemmeno la tardivissima conversione al fronte progressista da parte del nuovo corso contiamo del Movimento 5 Stelle fa sperare in questo senso; non tanto perché le intenzioni dei pentastellati non siano da considerare sincere, quanto perché la connessione con un PD veramente di sinistra moderata sembra ancora una chimera. Basta dare un’occhiata a quanto sta avvenendo nel dibattito laziale sulla formazione della coalizione che dovrà sfidare le destre di governo.

Il progetto di Alessio D’Amato è a trazione centrista, muove verso Calenda e Renzi e non certo verso Conte e il M5S.

D’altro canto, l’ingresso nella platea congressuale di Elly Schlein potrebbe indurre a ritenere che qualche speranza c’è di vedere nascere un cantiere interno dedito alla rifondazione democratica, al cambiamento netto, a centottanta gradi per abbandonare la tentazione centrista e rivolgersi soltanto alla conformazione plurale di un “fronte progressista“. Ma, prudentemente, la neodeputata non si sbilancia e non entra nel merito.

Ne sapremo di più solo vivendo, d’accordo. Ma è bene farsi poche illusioni, perché il problema non è se il PD può essere di sinistra, ma se la sinistra può essere qualcosa come il PD.

Qualcosa nato per essere “anche” di sinistra, ma pure di centro. E quindi. se i democratici non decidono che fare da grandi, che cosa diventare o in cosa mutarsi, ciò che rimane della sinistra di alternativa non ha grandi possibilità di dialogo con chi ha fatto le peggiori controriforme sul lavoro, sulle pensioni, sulla scuola, sulla sanità, promuovendo tutto il contrario di quello che avrebbe dovuto essere una politica di tutela dei bisosgni sociali e dei beni comuni.

Non si tratta di recriminazioni da mettere come paletti pregiudiziali per un riabboccamento tra sinistre disperse, tra epicentri di un terremoto politico che ha scosso un po’ tutto e tutti nel mancato campo largo e anche in quelli più ristretti e asfittici del post-voto.

Semmai è in questione la credibilità di un nuovo progetto politico che sia formulato dai soliti noti e che non presenti un ricambio anche generazionale, intendendo così segnare una soluzione di continuità con ciò che fino ad oggi è stato il PD: una anomalia tutta italiana che, se superata, può aiutare la sinistra moderata ad essere sé stessa, il centro a ricongiungersi col centro e dare una spinta ad una riforma in senso proporzionale della legge elettorale.

Adesso si ragiona per ipotesi in un meccanicismo di situazioni che non è affatto detto che sarebbero esattamente l’una prodromica dell’altra. Ma, vista la storia del PD, dalla sua venuta alla politica italiana, sulla scia di un veltronismo ben presto accantonato, sarà concesso a chi ha sempre criticato quell’unione di due culture grandi e differenti, seppure non nettamente antitetiche fra loro, dubitare quanto meno delle intenzioni che si leggono e delle mosse che si intravedono in casa democratica.

La nettezza delle scelte politiche il PD l’ha avuta solo quando ha dovuto schierarsi contro i lavoratori, favorendo logiche di protezione liberista attraverso riforme che hanno penalizzato una generazione di giovani studenti, di precari e di occupati senza più alcuna garanzia di continuità del proprio posto in fabbrica, in cantiere o nel terziario.

La nettezza delle scelte antisociali il PD l’ha mostrata apertamente con l’approvazione di legislazioni che hanno sostenuto il dogma della dipendenza di tutto dalle fluttuazioni di mercato, di una economia continetnale piegata alla flessibilità del posto di lavoro, mentre i profitti aumentavano e le speculazioni a danno del pubblico diventavano la regola.

Provando a mostrarsi come forza modernamente liberale, il PD ha vissuto della luce storica di una sinistra sempre meno presente a sé stessa, grazie alla dicotomia tra sé stesso (che potremmo definire come “ciò che non era di destra“) e le destre che oggi troneggiano a Palazzo Chigi.

Sarebbe molto utile al Paese poter avere, come in Francia, in Germania, in Spagna e in altri peasi europei, due sinistre che a volte si intendono e altre volte no, ma che sono identificabili come tali: una moderata e riformista, socialista o socialdemocratica; ed una di alternativa, radicale, comunista, anticapitalista che può interagire con la prima a seconda delle dinamiche che si vengono a determinare in un dato contesto sociale e politico.

Il “caso italiano” è drammaticamente un unicum in Europa. Lo sarà ancora di più ora con il governo Meloni, spostando l’asse del Paese verso l’alleanza di Visegrad piuttosto che verso quel liberalismo che, quanto meno, mostra una parvenza di rispetto dei diritti civili (ma che non tratta allo stesso modo i diritti sociali).

Il PD deve dunque scegliere cosa fare da grande, perché, caso mai sia mai stato grande, adesso non lo è più. E non c’è soddisfazione alcuna nello scrivere queste considerazioni. Solo amarezza per il tanto tempo perduto ad inseguire sogni di rivincita sulle destre facendo le politiche delle destre stesse sul terreno economico.

Solo altrettanta amarezza nel constatare che, dopo il tramonto del berlusconismo, non è rinata una sinistra degna di questo nome, ma solo tanti opportunismi a cui si sono date le sembianze di centro, di sinistra e di centrosinistra insieme, isolando e contribuendo alla condanna all’irrilevanza di chi avrebbe potuto essere un compagno di viaggio nel cammino per un recupero dei diritti dei lavoratori e degli sfruttati di una Italia desolatamente preda delle pulsioni liberiste europee e dell’altlantismo di nuova moda.

Non facciamoci illusioni, ma non affidiamoci nemmeno a dogmatici presupposti, a pregiudizi e pregiudiziali. Le premesse sono tutt’altro che incoraggianti e, proprio per questo, non si può fare altro se non continuare a costruire la sinistra di alternativa aspettando di sapere se l’Italia ne avrà una nuovamente moderata, veramente riformista, con cui poter quanto meno dialogare.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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