Un popolo senza patria, bersaglio di tanti nemici dichiarati: i curdi traditi da troppi amici senza onore. Dal 20 novembre l’esercito turco sta colpendo con raid aerei e artiglieria obiettivi curdi nel nord della Siria e nel Kurdistan iracheno. Ankara accusa il Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, e le Forze democratiche siriane, le Fds, di essere responsabili dell’attentato che ha causato sei morti e 81 feriti a Istanbul il 13 novembre, ma entrambi i gruppi hanno negato il loro coinvolgimento. Il punto di Remocontro*

I curdi traditi e l’occasione scatenante di un datato progetto turco

L’attacco segna un nuovo picco nelle tensioni tra la Turchia e i curdi. Da tempo Ankara minaccia e cerca l’occasione per intervenire nelle zone curde semiautonome della Siria controllate dai combattenti delle Unità di protezione popolare (Ypg), affiliate al Pkk, e dove sono presenti anche soldati turchi. Pessime intenzioni note, frenate sino a ieri dai no della Russia, dell’Iran e delle potenze occidentali.

L’attentato del 13 novembre ad Istanbul ha offerto ad Ankara il pretesto per passare all’azione, sfruttando anche l’aumento dei sentimenti nazionalistici e contrari alla presenza dei profughi siriani in vista delle elezioni presidenziali e parlamentari che si svolgeranno nel giugno 2023 con Erdogan che corre per l’ennesima conferma del suo potere ormai ultra ventennale.

Il Pkk, partito curdo dei lavoratori, di matrice marxista, dal 1984 combatte una ribellione sanguinosa contro lo stato turco con l’obiettivo di conquistare l’indipendenza o una maggiore autonomia. La Turchia, l’Unione europea e gli Stati Uniti su spinta di Ankara lo considerano un gruppo terroristico.

Questi paesi hanno però opinioni diverse sulle Ypg. Le Unità di protezione popolare curde sono state alleate di Washington nella battaglia contro l’ex Isis in Siria. E un piccolo contingente di soldati statunitensi è ancora presente nel nordest del paese, vicino al confine turco, segnala Francesca Gnetti, su Internazionale.

Dopo l’attentato del 13 novembre (il primo di questo tipo in più di cinque anni), le autorità turche hanno pubblicato la foto di una donna siriana arrestata e accusata di aver piazzato la bomba e di lavorare per il Pkk. Decine di altre persone sospettate di essere coinvolte nell’attentato sono state subito arrestate. Una autentica retata nel giro di poche ore. Miracolo investigativo e sospetti.

Un’analisi del Jerusalem Post sottolinea che non sono state fornite prove a sostegno di questa versione dei fatti: “Mentre domenica sera la narrativa ufficiale di Ankara era che l’esplosione a Istanbul ‘poteva’ essere terrorismo, lunedì mattina non solo era stato deciso di sì, ma era anche stata trovata la colpevole e ogni pezzo del puzzle era al suo posto”.

Jerusalem Post e gli amici turchi di Al Qaeda

L’articolo fa notare anche altre incongruenze: «Secondo le autorità turche, la donna è entrata in Turchia da Afrin, in Siria, una zona che era sotto il controllo curdo fino all’invasione condotta dalla Turchia nel 2018. Afrin è attualmente in mano ai ribelli siriani sostenuti dalla Turchia e ad Hayat tahrir al sham (Hts), un gruppo affiliato con Al Qaeda. Assieme a jihadisti del gruppo Stato islamico». Tra Al Qaeda ed ex Isis la bomba terroristica troverebbe genitori più credibili. E resta assolutamente da chiarire come una donna abbia potuto spostarsi da Afrin fino alla Turchia, considerato che Ankara ha costruito un muro e una recinzione alla frontiera e mantiene una forte presenza di agenti di sicurezza nella zona -una spia ogni due o tre abitanti-, per impedire ai siriani di fuggire nel paese vicino. Incongruenza plateali che non hanno impedito ad Ankara di Ankara le accuse e l’ennesima azione di guerra contro i curdi.

Kobane, città eroica e bersaglio privilegiato

Le autorità turche hanno subito sostenuto che l’attacco di Istanbul era legato ad “Ayn al Arab”, il nome arabo di Kobane, “che spesso Ankara usa nel tentativo di cancellare la storia e l’identità curda della città”. E proprio Kobane è stata uno degli obiettivi del bombardamento del 20 novembre. Non è da sottovalutare il significato simbolico di questa città a maggioranza curda, epicentro della resistenza contro l’Is dal 2014 e su cui Ankara vorrebbe imporre il suo controllo nel piano per invadere ed appropriarsi di “una zona di sicurezza di trenta chilometri lungo il nord della Siria”. Poco meno del Donbass russofono per la Russia in Ucraina.  La Turchia Paese Nato, utile ancora ricordare, ha invaso il nord della Siria tre volte dal 2016.

Anche la minoranza Yapida dopo lo sterminio ex Isis

I bombardamenti turchi hanno colpito anche la zona di Sinjar, nel nord dell’Iraq, dove vive la minoranza yazida, massacrata dall’Is nel 2014. Secondo alcuni esperti – ribadisce ancora ‘Internazionale’-, Ankara potrebbe proseguire l’offensiva con un’operazione via terra. Oytun Orhan, dell’istituto Orsam di Ankara, ha spiegato ad Arab News che nello scegliendo di colpire obiettivi come Kobane e Sinjar, la Turchia vuole segnalare agli Stati Uniti e agli altri paesi occidentali che non si fermerà, anche se i loro nemici non sono gli stessi.

I curdi sotto attacco da parte di più autoritarismi

I curdi non sono sotto attacco solo in Siria e in Iraq, ma anche in Iran, cioè in tutti i paesi (in cui vivono e costituiscono una minoranza spesso consistente della popolazione. “Per un ripasso della lotta lunga un secolo dei curdi per l’indipendenza, segnata da emarginazione e persecuzione, si possono leggere la cronologia del Council on foreign relations, lo schema della Reuters e la spiegazione della Bbc”, invita Francesca Gnetti. Molto potete trovare anche nell’archivio di questo blog.

La repressione in Iran contro ogni forma di dissenso

Iran oltre la rivolta delle donne e dei giovani. Secondo l’organizzazione per la difesa dei diritti umani Hengaw, almeno trenta manifestanti sono stati uccisi dalle forze di sicurezza nelle città curde. Solo a Javanroud ci sono state sette vittime dal 20 novembre. E i funerali si sono trasformati in una grande protesta il giorno dopo. In un video ripreso dalla Bbc Persian si vedono persone ferite e si sente il rumore degli spari. Un altro video mostra un convoglio di pick-up dei Guardiani della rivoluzione sormontati da mitragliatrici lungo la strada per entrare a Mahabad, dove le vittime negli ultimi giorni sarebbero almeno venti. Mentre le autorità hanno imposto la legge marziale in città.

La regione curda è stata l’epicentro della rivolta fin da quando il 16 settembre è scoppiata la rivolta per la morte di Mahsa arrestata dall’assurda della ‘polizia religiosa’ per il velo indossato male. Amini era originaria di Saqqez, una città del Kurdistan iraniano. I curdi rappresentano una delle principali minoranze etniche in Iran – circa dieci milioni su una popolazione di 83 milioni – e sono da sempre discriminati dalle autorità. Secondo l’organizzazione Hengaw, che ha sede nel Kurdistan iracheno, dall’inizio delle proteste ottanta persone sono state uccise e quattromila arrestate nelle zone popolate dai curdi in Iran.

Il regime di Teheran accusa i gruppi curdi di opposizione armata attivi nel vicino Iraq di fomentare i disordini nella regione. Ma non ha fornito nessuna prova e i video sui social network mostrano solo manifestanti di proteste disarmate che affrontano le forze di sicurezza. Questo non ha impedito ai Guardiani della rivoluzione di bombardare il 21 novembre i quartier generali di quelli che definiscono “gruppi dissidenti” nel Kurdistan iracheno. Altri raid con i droni sono avvenuti il 22 novembre. Il secondo attacco in meno di dieci giorni contro il Partito democratico del Kurdistan d’Iran e il gruppo nazionalista curdo iraniano Komala, che da decenni opera nella regione autonoma nel nord dell’Iraq

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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