In seguito alla ripresa dei colloqui tra la Piattaforma Unitaria – la principale sigla delle opposizioni del Venezuela – e il governo di Maduro, annunciata a Città del Messico, grazie alla mediazione della Norvegia e del Messico, l’Ufficio per il controllo dei beni esteri del Dipartimento del Tesoro statunitense (OFAC) ha rilasciato la Venezuela General License (GL) 41, autorizzando la Chevron Corporation americana a riprendere in parte le operazioni di estrazione di risorse naturali in Venezuela: in altre parole, gli Stati Uniti hanno allentato la stretta sulle sanzioni nei confronti di Caracas dopo quello che ritengono essere un passo avanti «per ripristinare la democrazia nel Paese». La licenza continua, comunque, ad impedire alla compagnia petrolifera venezuelana – la PDVSA, Petróleos de Venezuela, S.A. – di cui Chevron è comproprietaria, di ricevere profitti dalle vendite di petrolio da parte di Chevron e autorizza l’attività relativa alle joint venture di Chevron solo in Venezuela, mentre non autorizza altre attività con PDVSA. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti sottolinea anche che «restano in vigore altre sanzioni e restrizioni relative al Venezuela imposte dagli Stati Uniti; gli Stati Uniti applicheranno vigorosamente queste sanzioni e continueranno a ritenere responsabile qualsiasi attore che si dedichi alla corruzione, violi le leggi statunitensi o abusi dei diritti umani in Venezuela», si legge nel comunicato stampa.
Gli Stati Uniti hanno dichiarato di avere accolto la riapertura dei negoziati tra la Piattaforma Unitaria e il governo come parte della loro politica a sostegno del ripristino della democrazia, di elezioni libere ed eque e del rispetto dei diritti e delle libertà dei venezuelani. Nello specifico, l’accordo in questione, da un lato, è un accordo umanitario incentrato su istruzione, salute, sicurezza alimentare, risposta alle inondazioni e programmi elettrici a beneficio del popolo venezuelano; dall’altro, è una prosecuzione dei colloqui inerenti alle elezioni del 2024. Gli USA hanno, dunque, deciso di alleggerire le sanzioni sulla base di decisioni interne alla politica venezuelana, in quella che si configura come una delle tante interferenze più o meno indirette negli affari interni di Paesi terzi.
Tuttavia, più che una questione relativa alla democrazia e ai diritti umani, quello degli USA sembrerebbe un modo per sopperire all’aumentato fabbisogno di petrolio da parte di Washington, causato dalla crisi ucraina e inasprito dalla decisione dell’OPEC + di non aumentarne la produzione. Non è certo la prima volta che emerge come l’amministrazione americana usi le sanzioni in modo strumentale per colpire i governi non allineati, allentandole quando conviene all’economia statunitense. Nel caso venezuelano, se fino a poco tempo fa Caracas era considerato uno “Stato canaglia” da Washington – con relativo supporto ai tentativi di colpo di stato ai danni del presidente Maduro – ora la situazione sembra destinata a migliorare: gli Stati Uniti, infatti, oltre ad avere bisogno di petrolio, sono concentrati su situazioni e teatri geopolitici più rilevanti, come quello ucraino e di Taiwan, che richiedono di riallacciare i rapporti con potenziali partner commerciali, a prescindere dal fatto che rispettino o meno i diritti umani: Arabia Saudita, Qatar ed Egitto non sono certo modelli di rispetto dei “diritti umani”, eppure sono partner e alleati degli USA. Il criterio dei due pesi e due misure da parte della potenza a stelle e strisce continua, in sostanza, a dominare la strategia americana nei rapporti con l’estero. E il Venezuela non fa eccezione.
[di Giorgia Audiello]