Al Lawrence Livermore National Laboratory la fusione nucleare come fonte di energia rimane un obiettivo lontanissimo. L’entusiasmo dopo gli ultimi esperimenti serve a rimandare ancora una volta un discorso su crescita, limiti fisici del pianeta e transizione energetica giusta

L’entusiasmo con cui si è annunciato il risultato dell’ultimo esperimento sulla fusione nucleare al Lawrence Livermore National Laboratory in California, farebbe supporre che davvero, nel giro di pochi anni, disporremo di un’energia praticamente infinita e pulita.

La fusione nucleare è il meccanismo alla base del funzionamento delle stelle, nel quale nuclei leggeri si uniscono in uno più pesante e liberano energia, senza emettere gas serra né prodotti di scarto radioattivi dannosi.

Se già nell’ultimo decennio, dalla scoperta del bosone di Higgs, passando per l’osservazione delle onde gravitazionali e fino alle foto dei buchi neri, ci eravamo abituati a una commistione maliziosa tra le scoperte della fisica teorica e le esagerate grancasse mediatiche, questa volta effettivamente siamo di fronte a un evento che potenzialmente non solo ci farebbe conoscere meglio alcuni dei processi fisici più incontrollabili e affascinanti, ma offrirebbe un avanzamento tecnologico più impattante della ruota, dell’aratro e della macchina a vapore.

Andiamo con ordine: quello che si è ottenuto nell’esperimento è stata la produzione di 2,5 Megajoule di energia a fronte dei 2,1 Megajoule forniti dai laser per mantenere la reazione (dati approssimativi). Un guadagno netto di energia del 20%. Un grandissimo risultato, se confermato. Ma il tasto dolente sta nel fatto che tali laser sono altamente inefficienti e il processo, nel suo complesso, ha consumato più di 300 Megajoule, quando si consideri, come giusto che sia, anche l’energia necessaria all’attivazione dei laser e non solo quella immessa nella reazione.

Insomma, il computo energetico reale dell’esperimento rimane altamente in perdita. Inoltre, la reazione è durata una frazione di secondo. Quanto basta per scaldare al massimo una tazzina di caffè.

La realtà è che la sfida ingegnieristica è immensa, i ricercatori stessi parlano di imprecisati decenni per avere una tecnologia applicabile su scale rilevanti. Ciò dovrebbe bastare a limitare gli entusiasmi e riportare tutti alla moderazione che la scienza richiede, nonostante a livello teorico il risultato sia importante.

Sull’hype intorno ad alcune delle ultime scoperte scientifiche si tratta di notare come la scienza fondamentale, nella sua tendenza a farsi sempre più Big Science (che coinvolge cioè migliaia di persone con una divisione meticolosa del lavoro), abbia un crescente bisogno di rinnovare la sua capacità di creare miti, per giustificare le enormi spese che la sostengono. Poco importa se, ad esempio, le promesse di osservare la supersimmetria all’LHC di Ginevra cozzano con la realtà di risultati negativi: ciò che serve è, al più, un acceleratore ancora più potente. E in ogni caso gli investimenti, anche se non ripagati per il loro obiettivo primario, genereranno innovazioni tecnologiche collaterali: dai nuovi materiali, alla miniaturizzazione dei circuiti, dall’efficienza energetica ad algoritmi più sofisticati per l’analisi dei dati.

Certo è vero che l’impresa scientifica non va avanti a tappe forzate e il caso ha un ruolo fondamentale nelle invenzioni, ma non si può essere perennemente ingenui e non prendere visione collettiva del ruolo della scienza nelle dinamiche geopolitiche e nella creazione di ideologia.

Come sosteneva Marcello Cini nel 1969 nel saggio Il satellite della luna a proposito dell’allora esasperata corsa allo spazio, non si può separare il giudizio scientifico sulla ricerca dalla sua funzione più ampia di “stabilizzazione del sistema”.

Negli anni ‘60 la ricerca aerospaziale veniva motivata per i suoi sottoprodotti tecnologici, utili addirittura per risolvere “il problema della fame nel mondo”, ma nascondeva lo sviluppo di armamenti e la competizione, sia utopica e ideologica che militare, tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Restava il fatto paradossale che con tutti i soldi spesi per andare sulla luna (e un po’ di volontà) la fame nel mondo sarebbe sparita definitivamente, direttamente.

Riportando il ragionamento a oggi, notiamo che la Russia, impantanata in una guerra folle, ha pagato dazio negli anni per il disinvestimento in scienza e innovazione tecnologia. La Cina invece sta diventando su queste basi un nuovo polo egemonico. L’annuncio in pompa magna della fusione nucleare è parte di tale conflitto. Ma la rinnovata sfida mondiale tra potenze ha un convitato di pietra: la crisi climatica, che in ultima analisi ha come causa la scarsità delle materie prime e i limiti fisici, di energia disponibile e spazio materiale, che stanno ponendo un freno alla crescita e accumulazione capitalista (soltanto mitigati, forse, dalla guerra).

Chiunque non sia cieco o in malafede sa che il problema della transizione verde non è risolvibile né in termini energetici né tecnologici o, più precisamente: qualunque innovazione che non sia accompagnata da redistribuzione di ricchezza e giustizia sociale finirà per essere inutile e fallire.

Qualora fosse mai possibile, per avere energia disponibile dalla fusione nucleare passeranno decenni e non potremmo ridurre “ora” le emissioni di anidride carbonica, così da rimanere sotto la soglia simbolica dell’aumento di 1,5 gradi della temperatura. Quello che serve.

Ma anche se ottimisticamente, grazie anche a questa energia infinita che ancora non c’è, pensassimo di poter rimodulare i nostri obiettivi e accontentarci di un aumento di 2 o 3 gradi, altri problemi rimarranno senza soluzione: probabilmente non ci saranno comunque suolo fertile per coltivare o insetti che impollinino, ma in cambio oceani di plastica da smaltire, piogge acide e desolazione sociale.

Quello che ci dice l’eccesso di entusiasmo sull’esperimento di ieri è in sostanza il rinnovamento del sogno proibito di continuare col business as usual, per tranquillizzarci e resistere ancora qualche anno ai segnali di catastrofe, facendo come se tutto stesse procedendo senza intoppi, come se la catastrofe fosse meno reale di una energia infinita e pulita.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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