Sono già 25 i morti durante le manifestazioni in Perù esplose a partire dalla destituzione e l’arresto dell’ex-presidente Pedro Castillo. Dal 2016 ad oggi il Perù ha cambiato 6 presidenti della repubblica a causa di scandali di corruzione e a seguito dell’esplosione del malcontento popolare

Le autorità peruviane hanno aggiornato il bilancio dei morti occorsi durante le manifestazioni in Perù esplose a partire dalla destituzione e l’arresto dell’ex-presidente Pedro Castillo: sono 25 in totale, di cui ben 16 si sono registrati a partire dall’introduzione dello “stato di emergenza”, deciso dal congresso e dalla nuova premier Dina Boluarte. Si sono già attivati gli osservatori internazionali sui diritti umani che in queste ore stanno monitorando la situazione da vicino. Le proteste si concentrano nella parte centrale e nel sud del paese, la parte più rurale, dove lo condizioni di abbandono socio-economiche sono maggiori e dove c’è la maggiore concentrazione di popolazione di lingua quechua e di etnie indigene. La capitale Lima invece, tradizionalmente conservatrice e sede del potere economico-politico, per il momento sembra solo parzialmente toccata dal movimento di protesta.

La città di Arequipa nel sud, dove l’aeroporto è stato occupato per diversi giorni dai manifestanti, sembra essere uno degli epicentri delle proteste, mentre nella parte centrale del paese, Ayachuco (“l’angolo dei morti”) è la città che conta il maggior numero di morti, ben 16. Questa città ora al centro dei riflettori internazionali e la premier stessa ha sottolineato la volontà di approfondire le indagini per l’eccessivo numero di morti. Si pensi solo che Ayachuco è una delle città più povere del paese e anche una delle più colpite dalla repressione degli anni 90 contro Sendero Luminoso e contro le lotte contadine. Il ricordo degli assassinii e delle tortura (si stima che tra gli anni 80 e 90 nella ragione ci furono circa 70.000 morti) sulla popolazione è ancora fresco da quelle parti ed è accompagnato dalla continua stigmatizzazione sociale e razziale che l’entroterra rurale del paese subisce da parte della costa urbanizzata. Non è un caso dunque che la repressione più feroce si attui in questa regione.

L’attuale movimento di protesta peruviano che chiede lo scioglimento del Congresso, nuove elezioni e la formazione di un’assemblea costituente, è nato a seguito di una circostanza piuttosto complessa di crisi istituzionale.

Il 7 dicembre il Presidente Castillo ha annunciato lo scioglimento del Congresso e lo stato di eccezione militare per anticipare una mozione di sfiducia mossa nei suoi confronti (già la quarta in pochi mesi). A seguito di questo annuncio di “auto-golpe” però, il presidente eletto è stato prontamente arrestato e il congresso ha nominato Dina Bonuarte (la vice presidente del governo Castillo) come nuova Presidente della repubblica peruviana. A partire da qui la rabbia popolare è esplosa contro quello che si percepisce come un “golpe” del Congresso a scapito di un Presidente democraticamente eletto.

Per comprendere la situazione è bene tenere a mente che questa è solo l’ultima – e la più intensa – delle ondate di proteste che hanno investito il paese negli ultimi anni. Si pensi che dal 2016 ad oggi il Perù ha cambiato 6 presidenti della repubblica a causa di scandali di corruzione e a seguito dell’esplosione del malcontento popolare.

Questa volta però la situazione sembrerebbe essere ancora più critica forse perché la figura di Pedro Castillo era vista da molti come l’ultima speranza contro la corruzione della classe politica e a favore di una politica di redistribuzione della ricchezza e di maggiore equità sociale, in un paese con un quarto della popolazione che vive in povertà assoluta, con il tasso di insicurezza alimentare più alto del Sud America (con metà della popolazione senza accesso regolare a una nutrizione sufficiente) e con una crisi economica galoppante a causa dell’aumento del costo di fertilizzante e carburante per la guerra in Ucraina.

Pedro Castillo, ex sindacalista e maestro delle elementari, di origini umilissime, è riuscito a strappare una vittoria storica contro le élites che governano il paese dalla fine della dittatura di Alberto Fujimori. Proprio contro la figlia di quest’ultimo, Keiko Fujimori, ha vinto il ballottaggio per le elezioni presidenziali.

Il programma di Castillo è fondato su tre punti chiave: cambiare la costituzione ereditata dalla dittatura di Fujimori, ridistribuire la ricchezza attraverso un piano di nazionalizzazione delle risorse minerarie del paese attualmente preda delle multinazionali e, infine, combattere la corruzione delle élites del paese insediate nel congresso.

Nel suo programma tuttavia non mancano elementi di conservatorismo ideologico, come la netta presa di posizione contro la comunità LGBTA+ e l’“ideologia di genere”, contro i diritti civili quali aborto, eutanasia, unioni civili. In effetti Castillo è la classica espressione di quello che in Sud America viene definito “conservatorismo sociale” e in Europa chiamiamo “sovranismo di sinistra”.

Sebbene dunque il suo programma elettorale avesse trovato riscontro e legittimità nelle ultime consultazioni, il presidente Castillo non ha potuto attuare neanche uno dei suoi punti, a causa del costante conflitto con il Congresso che in larga parte non lo appoggia.

È importante capire che in Perù il Congresso non corrisponde quasi mai alla maggioranza elettorale che invece elegge il presidente della Repubblica incaricato di formare il governo. Il Congresso infatti conta quasi sempre su una maggioranza di destra con baricentro fujimorista a causa di un sistema proporzionale che favorisce alcuni specifici feudi elettorali corrispondenti a determinati gruppi di interesse (Fernando Tuesta Soldevilla, El impacto del sistema electoral sobre el sistema político peruano, Oficina Nacional de Procesos Electorales, 2003)

Questa frattura istituzionale tra Congresso e Governo è ciò che determina la pressoché totale ingovernabilità del paese degli ultimi 20 anni ed è ciò che genera la convinzione da parte del popolo che, nonostante gli sforzi di partecipazione elettorale, il paese sarà sempre governato dalla stessa élite economico politica che esercita il suo potere proprio attraverso il controllo del Congresso. La stessa élite di potere che teneva le redini del paese durante la dittatura militare e che ha mantenuto la sua presa sulle istituzioni attraverso la Costituzione scritta e approvata durante il governo di Fujimori.

Per questi motivi sarebbe un errore leggere l’attuale movimento peruviano semplicemente come l’espressione di un appoggio incondizionato al Presidente uscente Castillo. Al contrario, attraverso il movimento si gioca una partita molto più grande che riguarda la struttura stessa del potere politico ed economico del paese.

Come sottolinea lo storico Gabriel Salazar (Gabriel Salazar, En el nombre del poder popular constituyente, LOM, Santiago, 2011), i movimenti sociali del latino America si configurano quasi sempre come tentativi di riscrivere le fondamenta istituzionali del potere e per questo molto spesso si presentano come “movimenti costituenti”. Il cambio delle costituzioni è l’espressione della volontà popolare di fare i conti con la struttura di potere coloniale che continua a riprodursi nella società sud americana grazie alla continuità delle istituzioni attuali con quelle delle dittature militari e di queste ultime con i regimi coloniali dei secoli precedenti.

Se questa lettura si origina a partire dal caso cileno, a mio modo di vedere, essa risulta pertinente anche per l’attuale movimento peruviano. Non è un caso infatti che la principale richiesta delle piazze di questi giorni sia la formazione di una ”assemblea costituente” e che i soggetti che la stanno richiedendo provengano dalle parti più povere della società ma anche da quelle più discriminate da un punto di vista etnico-razziale. Il movimento indigeno che negli ultimi decenni ha preso forza e consapevolezza in quasi tutta l’America centrale, in Perù risulta essere al cuore dell’attuale movimento di protesta e pochi giorni fa ha chiesto formalmente lo scioglimento del Congresso. Per il movimento indigeno di lingua Quechua una nuova costituzione sarebbe la speranza per il riconoscimento di una identità storico-culturale da sempre marginalizzata, depredata e dimenticata dalle istituzioni. 

Secondo Victor Miguel Castillo, attivista e ricercatore del gruppo CLACSO Economías populares: mapeo teórico práctico, «il golpe contro Castillo è un golpe razzista contro la popolazione, soprattutto contro la popolazione dell’interno del Paese, contro quella parte del paese che fu fondamentale per la sua elezione».

Oggi il Perù quindi si trova tra due fuochi: da una parte una grave crisi istituzionale e dall’altra l’inizio di un movimento neo-costituente nato dalla parte della società marginalizzata economicamente e razzialmente, la quale sta mettendo il paese di fronte alla sua storia e al suo futuro. Un paese con vistose disuguaglianze sociali e con enormi conflitti etnici, dove al vertice della piramide sociale ci sono poche ricche famiglie di origine europea e al fondo chi parla le lingue indigene e vive spesso in un contesto rurale di deprivazione economico-sociale.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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