Il percorso lungo, travagliato – e truccato – del congresso del nuovo cosiddetto Pd

Son finiti i tempi dei segretari a vita o a fine mandato. D’altronde anche Papa Benedetto XVI si è dimesso prima della scadenza del mandato. Però, nel Partito democratico (Pd), fondato nel 2007, si esagera: nove segretari da allora a oggi (Renzi eletto due volte), di cui tre reggenti. Una durata media d’incarico di poco più di un anno e mezzo. Da statuto dovrebbe durare quattro anni, ma da quando esiste, soltanto in una occasione è capitato che il mandato volgesse al termine a scadenza naturale. Enrico Letta sta per lasciare il posto di comando di un partito difficile da collocare: non di destra, non di sinistra, non di centro, di certo neoliberista e soprattutto di governo comunque e sempre, sia che perda le elezioni (caso frequente), sia che le vinca (caso meno frequente). Un partito che ha scelto di stare dalla parte di quei settori di classe dominante più liberisti dell’economia globale, applicata senza cautele di sorta alle classi popolari, resiliente nel senso di anguillesco adattamento alle convenienze dei potentati europei, più realista della stessa borghesia che rappresenta, disposto a perdere le elezioni pur di mantenersi fedele a quel mandato.

Una politica che ha danneggiato lavoratrici e lavoratori e lo stesso partito in termini di voti e di iscritti: 800mila nel 2008, 370mila nel 2018, 300 mila nel 2021, appena 50 mila, con le iscrizioni ancora aperte, per l’anno 2022, secondo quanto riportato dal quotidiano La Stampa, del 27 dicembre. Nonostante ciò, continuano a mantenere la convinzione di essere i migliori, di avere un ceto politico eccellente e una superiorità etica e morale per dote antropologica che li annovera tra i più intelligenti. Vivono la contraddizione di una forza politica che si vanta di non essere un partito “personale”, a differenza di altri, ma è incapace di costruire una direzione collettiva e si perde nello scorrere delle correnti, che premono alla caccia di posizioni di potere. Triste destino quello riservato ai segretari. Sono tutti con lui quando vince le elezioni o conduce il partito ad assumere incarichi nella nomenclatura governativa; quando si perde diventa il capro espiatorio, sconta le colpe di tutti dimettendosi.

Le ragioni di un percorso tortuoso

“Il congresso costituente del nuovo Pd”, così era definito nell’ordine del giorno approvato dalla Direzione nazionale il 26 ottobre 2022, ha intrapreso un percorso lungo e travagliato, che non riguarda il tempo previsto, ma al modo in cui è stato occupato. Per la gran parte del tempo non si è discusso di nodi politici e programmatici. Il parere degli iscritti è stato demandato a un questionario formulato dall’Istituto Ipsos, al quale hanno risposto in circa 18 mila, valido tutt’al più tracciare una sociologia del profilo dei partecipanti, ma scarsamente utile a definire identità e linea del partito. Neppure si è discusso del tanto nominato Manifesto dei valori, per riconfermarlo o modificarlo, perché tale compito è stato affidato a un comitato di 87 membri, di cui circa due terzi esponenti del partito, scelti con una rigorosa calibratura del peso delle diverse correnti, e per un terzo circa da intellettuali o figure della società civile d’area vicina agli spifferi correntizi. Perché sono le correnti interne le vere, ma “occulte” protagoniste, di questo come di altri congressi: correnti cristallizzate, che non servono a discutere ma a dividere raccogliendo i sostenitori.

La partecipazione politica si riduce a scontro interno di potere ai vari livelli dell’organizzazione, assume la priorità rispetto ad altre questioni che dovrebbe discutere un partito uscito sconfitto nell’ultima tornata elettorale, misurato in calo negli ultimi sondaggi, superato dai Cinquestelle, incalzato dal partito di Calenda e Renzi. Ecco spiegata l’estrema attenzione posta alla procedura, alla definizione delle regole che governano il congresso, che è apparsa all’esterno bizantina e labirintica, e che ha invece una sua ragion d’essere in quanto elemento di protezione e tutela dei ceti politici che lo governano, con geometrie e alleanze variabili al suo interno.

I principali passaggi sono noti. I candidati sono quattro, l’ex ministra Paola De Micheli, il Presidente della regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, la ex europarlamentare, ex vicepresidente del governatore Bonaccini, ex iscritta (appena ritesserata) Elly Schlein, attualmente deputata, e Gianni Cuperlo, deputato ed esponente della Direzione nazionale del partito. Attorno a queste candidature e alle relative piattaforme programmatiche è avvenuto il posizionamento dei maggiori esponenti nazionali delle correnti e, a cascata, di quelli territoriali del partito, degli amministratori locali e dirigenti. Gli iscritti sono chiamati a votare entro il 26 febbraio per le piattaforme dei candidati. I due candidati più votati si sfideranno poi nelle primarie alle quali possono accedere iscritti e non iscritti, purché dichiarino “di riconoscersi nella proposta politica del partito, di sostenerlo alle elezioni, e accettino di essere registrati nell’albo pubblico delle elettrici e degli elettori”, come recita lo statuto. Con l’aggiunta della possibilità di voto online consentita però solo a precise e determinate condizioni.

Si è giunti a questa decisione, frutto di un compromesso, sulla spinta della candidata Elly Schlein (interessante il ritratto che ne compila Davide Fabbri, ndr) che, per la sua storia politica (dentro, fuori, ai lati del partito) ha più bisogno di altri del voto degli “esterni”, soprattutto nel caso gareggi con Bonaccini, come appare probabile, alle primarie. Nel caso finisse al ballottaggio, le probabilità di successo di Elly Schlein, appoggiata da un pezzo consistente della “sinistra” e da Dario Franceschini, aumenteranno solo se riuscirà catturare l’interesse della parte critica esterna al partito, attivando “una ‘circolazione extra-corporea’ che riesca a mobilitare forze che da tempo hanno abbandonato il Pd”, come ha scritto Antonio Florida.

Al di là dello “spettacolo” che il ballottaggio assume, la parte più importante del congresso è quella che si svolge tra gli iscritti nei circoli. Ai fini dell’elezione, le candidature a segretario nazionale vengono presentate in collegamento con liste bloccate di aspiranti alla carica di componente dell’Assemblea nazionale. Nella composizione di tali liste devono essere rispettate la pari rappresentanza e l’alternanza di genere, recita lo statuto, e aggiunge, anche il pluralismo interno, cioè il peso proporzionale delle correnti. I voti ottenuti dai candidati-segretari guadagnano proporzionalmente i posti conquistati all’Assemblea dai sostenitori. È un meccanismo singolare: sono i candidati segretario che contribuiscono in modo rilevante all’elezione dell’Assemblea nazionale e, per trascinamento correntizio proporzionale, della Direzione. Per cui sono i candidati-segretario che “eleggono” gli organismi dirigenti: non sono questi ultimi a scegliere il segretario.

Non è quindi mal riposta tutta l’attenzione e l’attivismo interno in questa fase congressuale, caratterizzato da trattative tra le varie sub-correnti che appoggiano questo e quel candidato, finalizzate a conquistare peso e rilevanza nella “coalizione” interna che lo sostiene, per poi avere una propria rappresentanza nella futura Assemblea nazionale. Questo meccanismo, consustanziale al Pd fin dalla sua nascita, garantisce le correnti e le sub correnti, le vivifica, le promuove ad atto permanete della vita politica interna del partito, condiziona la discussione e il dibattito, il funzionamento dei suoi organismi e il modo di fare politica che trasmette agli iscritti. Questo è lo stato del funzionamento congressuale e quotidiano di un partito che si definisce “democratico” nel nome e che invece funziona secondo la vecchia legge delle oligarchie.

Perché non c’è sinistra nel Pd

I dirigenti del Pd, come i suoi quadri intermedi e la pletora di amministratori locali sono ormai lontani non solo col passato remoto comunista o del riformismo cristiano sociale, ma pure da quel pallido riferimento socialdemocratico di cui si ammantavano i Democratici di sinistra, prima della formazione del nuovo partito nell’ottobre del 2007. Una scelta politica decisamente neoliberista, di rappresentare interessi diversi e spesso contro quelli delle classi lavoratrici, nascosti però dietro l’oggi ambigua parola “riformismo”, usata per peggiorare le condizioni per ottenere la pensione, lo smantellamento progressivo dello stato sociale, delle regole del mercato del lavoro e dello Statuto dei lavoratori. È facile quindi riconoscere in questi slittamenti semantici la caduta di ogni riferimento ai valori (anche generici) che indicano la presenza della sinistra.

Tra questo partito e la massa dei subalterni si è via via creato una divaricazione di cui ha approfittato la destra raccogliendo consensi per governare, approfittando dell’alta percentuale degli astenuti delusi dalla mancanza di una forza di sinistra che non trovano riscontro nei tentativi, spesso contorti e improvvisati, delle organizzazioni minoritarie anticapitaliste e antiliberiste. Oggi, ancor più, non è credibile l’illusione di chi spera che il congresso possa incollare assieme i cocci spostandoli a sinistra, senza una critica radicale (che non c’è) all’assioma condiviso fin dal tempo della fondazione, in cui si afferma che il principio guida del governo del paese consiste nel “fissare le regole per il buon funzionamento del mercato”.

Dal congresso non verrà alcuna svolta a sinistra. Nondimeno l’illusione permarrà in alcuni settori di elettorato, perché contro i sentimenti la ragione può ben poco. Si riproporrà un precario equilibrio fra correnti più o meno liberiste, con appelli a una politica che sia “vicina alla gente”, non certo proposte, che mancano, da mettere in pratica in primis contro il governo attuale. Sperano invece che il tempo mostri i limiti e le contraddizioni del governo, lasciando al Pd un margine per tentare una risalita elettorale e possibilmente anche di governo nel corso della legislatura. Assisteremo disincantati al quasi certo duello Bonaccini e Schlein, sapendo che la struttura del partito è quella descritta sopra, e chiunque risulti eletto si troverà a galleggiare su un equilibrio politico interclassista, pendente non a sinistra ma verso le forze della borghesia.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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