Con l’ultima legge di Bilancio, approvata allo scadere dello scorso anno, il governo Meloni ha deciso di accorpare centinaia di scuole. Nelle scorse ore, sono filtrati i dati della manovra, che a partire dall’anno scolastico 2024/25 intaccherà soprattutto gli istituti meridionali: 146 in Campania, 106 in Sicilia, 79 in Calabria, 66 in Puglia, 45 in Sardegna. L’esecutivo ha difeso la decisione appellandosi al rispetto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e ai suoi 528 vincoli, funzionali all’erogazione dei fondi europei. Nello specifico, si parla dell’”adeguamento della rete scolastica all’andamento anagrafico della popolazione studentesca”. Insomma, la risposta di Bruxelles alla denatalità del Vecchio Continente e dunque dell’Italia. Il Ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha affermato che si interverrà «soltanto sulle strutture giuridiche, cioè sulle dirigenze scolastiche, e non sulle strutture fisiche». Una decisione che comporterà comunque meno scuole autonome, oltre che relazioni interne (come la gestione del personale) ed esterne più complesse.
Con il testo approvato dal Parlamento, la cifra minima di studenti per assegnare a un istituto l’autonomia giuridica sarà innalzato da 600 a 900. Ciò comporterà dunque l’accorpamento degli istituti, che si configureranno intorno a un plesso centrale e diverse succursali. «A partire dall’anno scolastico 2024/25 avremo meno scuole autonome ma sempre più complesse con almeno 900 alunni, con molti plessi e più personale da gestire, relazioni interne ed esterne certamente più complicate (si pensi agli enti locali, all’associazionismo, ai partner, alle reti di scopo), a cui si aggiungono le possibili fusioni di realtà scolastiche molto diverse tra loro per utenza e territorialità», ha dichiarato l’Associazione Nazionale dei Collaboratori dei dirigenti scolastici (ANCODIS). Preoccupazioni, dunque, per l’effettivo funzionamento dei futuri istituti alla luce della maggior complessità, a cui la maggioranza risponde sbandierando risparmi in bilancio. Poco più di 50 milioni di euro da qui al 2028, frutto del minor fabbisogno di dirigenti scolastici e di direttori dei servizi generali e amministrativi, a cui si aggiunge la riduzione del fenomeno delle “reggenze”. Briciole se considerate le cifre della spesa pubblica dello Stato italiano, pari a 1.029 miliardi di euro nel 2022.
Nel citato obiettivo del PNRR si parla poi di “fornire soluzioni concrete per la riduzione del numero degli alunni per classe”. Tale parte della disposizione sarà sfuggita a Palazzo Chigi, che non ha proposto misure per superare l’annoso problema delle “classi pollaio”, la cui esistenza mina l’effettiva realizzazione del diritto all’istruzione di milioni di studenti. Da Viale Trastevere, il ministro Valditara ha invece aperto a «stipendi più alti a chi insegna dove la vita è più cara», non considerando l’esodo di docenti verso le regioni più ricche e l’impoverimento degli istituti meridionali che ne conseguirebbe. Tra le idee del ministro anche la possibilità di accettare finanziamenti privati, nonché figure professionali reclutate nel mondo delle aziende, nelle scuole pubbliche. Una deriva chiara verso il mito della privatizzazione e della scuola come azienda, luogo non di formazione e crescita personale ma di semplice transizione verso il mondo del lavoro.
[di Salvatore Toscano]