La riforma sulla celeberrima “autonomia differenziata” dovrebbe essere resa più comprensibile all’eventuale dibattito popolare sui temi riguardanti il riassetto istituzionale.

Si rischia davvero un grande pasticciaccio brutto, un pastrocchio che rischia, nella reciproca compensazione di opportunità e opportunismi politici tra le forze della maggioranza di governo, di mettere insieme diversità tanto evidenti quanto inconciliabili sull’assetto dello Stato, sulla tenuta della Repubblica in quanto espressione formale e sostanziale della democrazia.

Democrazia intesa come piedistallo portante delle garanzie per la conservazione dei diritti sociali e civili uguali in tutto il Paese.

Quello che rimane dello stato-sociale di una Italia sempre più privatizzata e lontana dai reali bisogni dei cittadini, finirà, con la controriforma di Calderoli, per essere stritolato nella particolarizzazione di un regionalismo atipico, lontano dall’autonomismo originario della Costituzione, altrettanto impossibile da definire come “federalismo“, tanto più in una cornice presidenzialista agitata da Meloni come patto di compensazione rispetto alle esigenze leghiste.

Si sacrifica sull’altare dell’elettoralismo a cattivo mercato, poco prima del 12 e 13 febbraio, una visione unitaria di quella “nazione” così tanto esaltata dai partiti di governo, così poco tenuta in conto quando si tratta di tradurla nel concreto e di farne, molto laicamente, una sostanziale e concreta realtà di coesione tra le straordinarie diversità da Nord a Sud della penisola, per creare un dinamismo di confronti che sia incentivo alla collaborazione vicendevole e non, invece, alla frenesia economicisto-finanziaria della competizione a tutto spiano.

Così facendo, si darà vita all’esatto opposto del vero carattere nazionale della Repubblica, all’unità del Paese che è, oltre ogni ragionevole dubbio, indivisibile, ma che finirà per essere unito solo sulla carta e non certo su quella della Costituzione.

L’unità è tale se è sociale, prima di tutto e prima di qualunque singolarità. Assegnare una autonomia “differente“, appunto, a seconda della ricchezza o della povertà delle regioni italiane è, in nuce, sezionare delle porzioni, aggregare nel nome dei privilegi di alcune e delle disgrazie di altre. La compenetrazione complessiva degli interessi, gli scambi e il sostegno reciproco, sia esso sociale, economico o di altra natura, verranno meno se si penserà “regionalmente” e non nazionalmente.

Il patriottismo dei sovranisti e dei conservatori di destra è un’agitazione propagandistica dai tratti meramente ideologici, priva di qualunque aderenza con una realtà che non disdice affatto l’unità del Paese quando si tratta di metterne a valore le specificità positive o negative locali, ma che entra in crisi nel momento in cui la si intende come terreno di sviluppo di interessi corporativi, imprenditoriali e all’utilizzo del pubblico a fini esclusivamente privati.

Purtroppo, l’origine del pericolo di uno spezzettamento delle garanzie, delle tutele, dei servizi non nasce con il retaggio separatista e distortamente autonomista di Roberto Calderoli e della Lega.

Quasi a voler cercare di evitare il disastro più grande di una secessione effettiva tra nord e sud, la riforma del Titolo V della Costituzione fatta del centrosinistra nel 2001, ha esacerbato il principio di sussidiarietà, estendendo l’autonomismo degli statuti speciali al resto delle regioni, dando loro potere decisionale in materia di scuola, sanità, assistenza sociale e trasporti senza prevedere un rapporto diretto tra i territori e lo Stato sul piano dei finanziamenti e della perequazione delle risorse.

Si parla tanto, proprio a proposito della controriforma di Calderoli, di quei Livelli essenziali di prestazione (LEP) che sono sì uno strumento di ipotetico adeguamento della legislazione locale ai bisogni della popolazione, ma che dipendono comunque dal Parlamento nella valutazione complessiva sugli ambiti e nei termini in cui debbano essere proposti, disposti e applicati. In sostanza: le Regioni hanno oggi una autonomia ancora sub iudice del legislatore nazionale e non possono prescindervi.

Con la controriforma dal retrogusto del leghismo d’antan, particolarista e privilegiante i ricchi territori del nord, il ruolo del Parlamento verrebbe ridimensionato e marginalizzato: le piccole correzioni di queste ore al testo che approderà in doppia lettura al Consiglio dei Ministri sono delle prove di imbellettamento, un maquillage da captatio benevolentiae per avere il più vasto consenso possibile, soprattutto da parte di quel Terzo polo naturalmente oscillante verso le posizioni della maggioranza piuttosto che verso il suo ovvio ruolo di opposizione.

Nella sostanza, il governo e le Regioni si confronteranno sull’approvazione dei LEP e delle intese senza una decisione sovrana e vincolante delle Camere, ma attendendone il semplice parere in merito, seppure nascosto dietro la formale definizione di “approvazione” a cui si è tolto l’aggettivante “mera” che evidenziava davvero troppo i verissimi intenti degli autonomisti – presidenzialisti.

Non bisogna dimenticarselo: il pacchetto antiparlamentare, antiunitario e antisociale è doppio e riguarda tanto l’autonomia differenziata quanto il presidenzialismo. In questa cornice asfittica il Parlamento sarà ridotto ad osservatore nemmeno tanto privilegiato della vita istituzionale nazionale e regionale.

Non si vuole qui preconizzare un futuro disastroso per il Paese, facendo le cassandre (pur essendo già ora fortemente non creduti sugli allarmi denunciati da fior fior di costituzionalisti), ma l’allarme va lanciato anzitempo. E siamo già parecchio in ritardo.

Se tutto questo distopico lavoro politico e istituzionale, esattamente il contrario di quello che un governo dovrebbe fare per tenere unito il tessuto sociale, civile e culturale del Paese, godesse della stabilità governativa attuale, nonostante le urla e gli strepiti sul caso Cospito, la guerra in Ucraina e le risorse del PNRR, l’effetto primo che riscontreremmo sarebbe il trattamento davvero enormemente diverso da regione a regione in tema di scuola pubblica, di trattamento sanitario e sociale (tanto di prossimità quanto nelle grandi strutture ospedaliere), di gestione delle infrastrutture e dei trasporti (efficienza, costi…).

Sarebbe un gran brutto colpo tanto alle tasche dei cittadini e, quindi, in primis ai loro diritti fondamentali: tra tutti quelli di essere considerati uguali in tutto e per tutto dalla Vetta d’Italia a Lampedusa.

Qui invece si sta per mettere alla prova un intero popolo, creando una doppia cittadinanza: di serie A per coloro che vivono nelle aree maggiormente produttive del Paese e di serie B per coloro che vivono in quel Mezzogiorno che non è mai stato veramente sostenuto ma sovvenzionato, mai aiutato ad evolvere ma solo assistito. La discrasia istituzionale, politica ed amministrativa che se verrà a creare si ripercuoterà inevitabilmente sulla vita quotidiana di tutte e di tutti.

Un Paese già storicamente diviso da due velocità di sviluppo, da diverse contraddizioni socio-antropologiche, da retaggi storici fondati su pregiudizi quasi ancestrali e cronologicamente protozoici, subirà l’ennesima mortificazione dell’articolo tre della Costituzione, di quell’uguale riconoscimento (e non “concessione“) dei diritti sociali e civili a tutta la popolazione, senza distinzione alcuna, soprattutto sulla base di un redditometro per ciascuno e di una produttività aziendale a livello regionale.

La tanto sbandierata novità riguardante la “classe dirigente” della destra di governo e al governo, la si è vista in tutta la sua fulgida duttilità negli interventi alle Camere tanto dei deputati di Fratelli d’Italia quanto dei loro ministri: se dallo stato della giustizia e delle carceri si riconosce il livello di civilizzazione di un paese, allora il nostro è ancora molto, molto indietro nella concretizzazione di un sistema equo e dignitoso anche per i detenuti. Anche per quelli che hanno commesso i peggiori crimini.

Anche su questo piano, pericolosamente inclinato verso un falso garantismo, verso una ignobile pantomima, completamente asservita alla più retriva retorica sulla forza della Legge, sul diritto come clava da agitare in presenza di un pericolo che Meloni vede nei confronti di tutto lo Stato, si concentreranno tutte le peculiarità di una differenziazione autonomista da regione e regione nella gestione degli istituti penitenziari.

La riforma calderoliana, per quanto l’amministrazione della giustizia dipenda in prima ed ultima istanza dal Ministero e quindi dal Governo della Repubblica, potrà essere declinata anche in questo frangente seguendo un più generale dettame di uniformità al resto dei diritti scarnificati, dei doveri ampliati e delle garanzie rese variabile dipendente della produttività mercatista, dei profitti privati e di una visione completamente stravolta della solidarietà popolare, dell’unità nazionale espressa propriamente nella condivisione generale dei problemi quanto delle loro risoluzioni.

A questo impianto mortificante la Repubblica e la Nazione, intesa nella sua più alta definizione che fa del popolo e del Paese un unicum, va fin da ora fatta una opposizione senza sconti e organizzata una controffensiva democratica a tutto spiano. L’Italia delle piccole patrie di un liberismo sfrenato al Nord e di una marcescibilità esponenziale al Sud è inimmaginabile, ma oggi più che mai è l’incubo che può diventare realtà.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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