Sanremo palco per tutti e per tutto. Non solo musica, non sono solo canzonette, non solo nazional-popolare. La nave va, i cantanti passano, le passerelle si sprecano e le provocazioni miste alle denunce pure. Qualche spiraglio per la pace c’è: una bandiera arcobaleno annodata da Piero Pelù sull’asta del microfono, il retro del giubbotto di Gianluca Grignani che urla “No guerra“.

Le rose scalciate da Blanco tengono banco per un giorno e mezzo: poi il giovanissimo cantautore verga di sua mano una poesiola, chiude con “Ariston ti voglio bene” e tutti siamo più contenti. Mentre si spegne un fucuo fatuo da social network, se ne accende un altro molto più divampante: si tratta di razzismo questa volta.

La campionessa di pallavolo Paola Egonu, altissima nel fisico e nella splendida dignità che emana, fa qualcosina di più della lettera della Ferragni a sé stessa da adulta a bambina: pur nel contesto della teatralità, che un pò costringe al tono dimesso e alla pacatezza che induce alla banalizzazione involontaria dei concetti, si esprime a favore di telecamera in un monologo che interroga le coscienze.

Anche l’azzurra si rivolge per qualche istante a sé medesima: perché… ero la bambina e la ragazza dei perché. Quelli infantili e innocenti di chi davvero non comprende le stranezze del mondo degli adulti e le complicazioni che ne derivano. Perché io ero diversa? Perché mi sentivo così? Perché gli altri mi deridevano, insultavano?

Già, perché? Per il colore della pelle, per uno stigma antichissimo, figlio di un ancestralissimo pregiudizio che, siccome la scoperta del mondo e la sua conquista l’ha fatta l’Europa, non poteva non derivare dall’assunto per cui i bianchi sono oggettivamente superiori ai neri, ai gialli, ai rossi, e così via…

A scuola non ce lo hanno mai detto esplicitamente, ma noi europei, pur discendenti probabilmente dei sapiens che avevano avuto origine nel Corno d’Africa, nell’Abissinia di infelice italianissima e fascistissima memoria, ci siamo emancipati a tal punto da considerare tutto il resto del pianeta di nostra pertinenza: conoscenza è potere, divisione del lavoro è strutturazione del moderno capitalismo, a partire dall’accumulazione del sovraprodotto sociale.

E così abbiamo scoperto noi il mondo intero: dall’America colombiana all’Asia marcopoliana fino all’Australia in cui Sua Maestà britannica deportava la maggior parte dei galeotti del ‘700 e dell’800.

Dopo aver oltrepassato i confini dell’impenetrabile Sahara, dove nemmeno i romani avevano osato penetrare (“Hic sunt leones“), la colonizzazione europea ha spazzato via intere civiltà antiche e ha instaurato delle moderne copie di sviluppismo occidenale, cristianizzando e capitalizzando tutto quello che le veniva a portata di mano.

Il razzismo nasce e si diffonde in forza di questa idea di dominio totale, di superiorità culturale, economica, sociale e civile. E tuttavia non è un fenomeno solamente rubricabile alla voce dell’imperialismo europeo di ogni tempo: cinesi e giapponesi da un lato, ottomani e altri popoli arabi dall’altro, hanno dimostrato l’universalità paradossale di una prevenzione quasi atavica, di una idea globale che non risparmia nessuno, che è universalmente contagiosa.

Il razzismo è un istinto pernicioso, una sedimentazione incoscia che, nel momento in cui si sveglia dal suo limbico torpore, scatena le peggiori pulsioni, i più tremendi e crudeli supposti ideali ed ideologici per ramificarsi attraverso il potere e diventate incultura di massa.

Quando Paola Egonu afferma che l’Italia è un paese razzista non insulta il Paese con la pi maiuscola, ma mostra all’intera nazione ciò che anche è, ciò che anche vive di sé stessa e fa vivere agli altri.

E’ evidente che l’Italia non è tutta razzista, sessista, patriarcale, omofoba e xenofoba. Ma lo diviene in larga parte nel momento in cui già nega di esserlo. Noi medesimi non siamo soltanto astiosi, iracondi, cattivi, etereamente buoni e gioiosi, disposti sempre al solidarismo e all’empatia costante. Siamo un po’ tutto questo.

L’alternanza delle emozioni è, al pari dell’alternanza delle condizioni del potere e dell’economia, più prettamente materiali, una costante della vita. In noi albergano tanto negatività quanto positività: brutti e bei pensieri, cattivi e buoni istinti. Dettati dal percorso che facciamo nel corso dell’esistenza e dai tanti condizionamenti psicologici che introitiamo.

Presuntuosamente pensiamo spesso di poter dire che “noi diciamo“, “noi siamo“, “noi facciamo“. In realtà noi diciamo, siamo e facciamo sempre qualcosa che è il risultato di una somma di esperienze pregresse. A priori non diciamo, siamo e facciamo proprio nulla.

Per questo ogni fenomeno sociale deve essere indagato costantemente e ogni allarme antisociale come quello del razzismo istituzionalizzato, che diventa legge e norma, che si fa diritto contro i diritti, ha bisogno di una attenzione particolare, perché non esiste una preservazione imperitura, una garanzia senza fine sulla messa al bando per sempre degli orrori messi in essere da noi animali umani contro il resto di una umanità che consideriamo inferiore.

Al pari dell’animalità non umana, di tutti gli altri esseri viventi che da millenni abbiamo ridotto, antropocentricamente, al nostro esclusivo servizio: per divertimento, per lenire le nostre fatiche, per soddisfare gli appetiti di uno stomato che può decidere – grazie ad una intelligenza più sviluppata rispetto al resto degli abitanti del globo – se accettare la sofferenza di miliardi ai animali per avere qualcosa nel piatto oppure no.

Il razzismo è tutto interno alla specie umana: siamo così piccoli e meschini, ridotti in catene dalla voglia di sopravvivere meglio di altri esseri viventi, da inanellare qualunque banale scusa per continuare a dominare a scapito di tanti altri popoli. Lo facciamo credendo di obbedire alla giustezza delle nostre opinioni che, proprio perché tali, provengono da altre opinioni ancora e non sono mai veramente solo nostre.

Nemmeno quelle scritte qui, ora, e che state leggendo. Io che scrivo sono certamente io, ma queste righe non sono qualcosa che si crea dal nulla, ma provengono da un cumulo originario, da altre voci, altre sensazioni e tanti altri costrutti mentali che – giusti o sbagliati che siano – formano la cosiddetta “cultura personale“.

Noi non siamo mai ciò che pensiamo di essere per davvero. Siamo, semmai, ciò che – molto montalianamente parlando – non siamo e ciò che non sappiamo. Perché la nostra identità risiede nella contrarietà rispetto alle certezze che andiamo esibendo tronfiamente.

Una di queste identità mal poste è la sicumera con cui solenniziamo l’assunto della giustezza delle tradizioni, della straordinaria bellezza delle nostre origini che oggi va di moda etichettare come “giudaico-cristiane” (un ossimoro grossolano, tanto quanto chi lo ha pronunciato per la prima volta e continua a farlo…). La nazionalità è un costrutto iperuranico che non attiene al vero valore laico del repubblicanesimo.

La Costituzione non ci invita a distinguere sulla base delle differenze di pelle, di religione, di cultura, di ceto sociale, di reddito e così via. Ci invita a valorizzare quelle oggettive distinzioni per farne un complemento comune, un arricchimento condiviso.

La cattiveria è sempre figlia dell”ingnoranza molesta, di quella voluta lontananza dall’oggettività sostanziale dei fatti. Che hanno la testa dura. E la cattiveria non è cancellabile con un tratto di penna; nemmeno con un articolo della Costituzione. Per ridimensionarla nell’angolo della vergogna è necessario dare voce a chi esprime una voglia di inclusione che non sia l’imitazione di un buonismo facilmente criticabile, ma una pratica quotidiana.

Paola Egonu ha fatto benissimo a dire chiaramente che l’Italia è razzista. Perché l’Italia lo è. Come è omofoba, populista, di destra, sessista, maschilista e omicida nei confronti delle donne. Come è corrotta e corruttrice.

Ma riconosciamoci per quel che anche non siamo: almeno noi. Se ci riconosciamo nel non essere omofobi, razzisti, di destra, populisti, sessisti e maschilisti, misogeni e conservatori, allora vuol dire che siamo altro. Non sarà facile affermare cosa siamo, perché probabilmente è poco chiaro anche a noi definirci e classificarci.

Ciò che importa, molte volte, è poter sapere cosa non siamo e non mostrare la nitudine ipocrita di ciò che pretendiamo di essere.

MARCO SFERINI

https://www.lasinistraquotidiana.it/litalia-e-razzista-ma-e-anche-qualcosa-che-non-sa-di-essere/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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