Come viene ricordato fin dalla prima pagina di Merci senza frontiere. Come il libero scambio deprime occupazione e salari di Aldo Barba e Massimo Pivetti – uscito a novembre dell’anno scorso per Rogas nella collana Inciampi – il saggio è il secondo di un trittico che intende occuparsi delle tre modalità di “libertà di movimento” proprie della mondializzazione: persone, merci (appunto, oggetto del libro)e capitali.

Il saggio è quindi un’agile monografia di economia che unisce al rigore accademico nella trattazione delle varie dinamiche via via analizzate anche una vocazione politica, in quanto il punto di vista privilegiato delle conseguenze reali di quanto si scrive è sempre quello dell’interesse del salariato, oramai privo di una controparte partitica in grado di rappresentarne gli interessi. Barba e Pivetti non a caso sono autori di un’altra lettura necessaria, La scomparsa della sinistra in Europa, edito per Meltemi (20212).

«L’idea è semplicemente che al pari di un singolo individuo o gruppo di individui, anche una nazione può assicurarsi un maggior benessere concentrandosi nelle attività per le quali è più dotata, diventando «specialista nella produzione di certi articoli e vivendo scambiando i suoi prodotti con quelli di altri specialisti» (p. 18): è questo il punto di vista dell’agiografo del libero scambio, che tende quindi a escludere la possibilità di uno squilibro tra importazioni ed esportazioni in grado di far diminuire «consumi e investimenti» all’interno del paese coinvolto e a stigmatizzare la specializzazione produttiva nel singolo paese stesso. Questo nonostante le posizioni ben più protezionistiche del padre dell’economia politica Adam Smith, cui si rivolgono come nume tutelare i liberali che regolarmente dimostrano di non averlo letto (pagine memorabili sono state scritte da Giovanni Arrighi).

Purtroppo, paradossalmente, anche Marx, seppur per motivi molto diversi, si dichiara contrario al protezionismo. Da quello che emerge dal discorso di Bruxelles dell’1848 citato dagli autori (p. 26), e dallo stesso Manifesto, la sua è in qualche modo una prospettiva accelerazionista: tra le due possibilità – da una parte il protezionismo, dall’altra il liberoscambismo – è da prediligere quest’ultima non perché costituisca un effettivo miglioramento della condizione dei salariati, ma per la potenza distruttrice esercitata contro tutti gli ostacoli di ordine nazionale che frenano la massima, spietata, affermazione del conflitto capitale-lavoro, portando il conflitto di classe al suo punto di massima contraddizione. Liquidare lo Stato come “comitato d’affari della borghesia”, oltre che causare incongruenze all’interno dello stesso sistema marxiano, ma delegittima la funzione che esso stesso svolge per gli interessi di classe dei salariati a partire dall’azione politica e dalla lotta di classe stessa. Non si spiegherebbero altrimenti i Trenta gloriosi, ovvero i tre decenni in cui, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il blocco occidentale, finalmente spaventato dall’alternativa economica che il sistema sovietico offriva ai salariati, fu costretto a riorganizzarsi economicamente in senso progressivo per i salariati stessi. Finita quella stagione, «lo Stato rappresentativo borghese è dopo tutto forse tornato a essere nient’altro che il «comitato d’affari della borghesia», con le sue conseguenze socialmente disastrose» (p. 42). A questo si accompagna ovviamente la perdita di sovranità politica ed economica, che, assoggettatasi all’ineluttabile oggettività dei parametri dell’integrazione europea (per quanto riguarda noi abitanti del vecchio continente) ha sottratto ai salariati la possibilità di pretesa di una risposta politica da uno Stato non più provvisto degli strumenti d’azione. Il significante di “sinistra” si fa quindi portatore dell’istanza neoliberale dell’Unione Europea: cito a mo’ di esempio la politica deflazionista ed esplicitamente indirizzata alla disoccupazione di Jacques Delors e dei socialisti francesi; oppure, le privatizzazioni realizzate tra il 1996 e il 2000 dai governi Prodi, D’Alema e Amato in Italia  (p.109). Seguono quindi delle pagine memorabili, che non riassumerò per non togliere il gusto della lettura ma che gli addetti ai lavori conosceranno per la loro familiarità amara, su quello che è successo relativamente alla fine del potere contrattuale dei salariati e sulle conseguenze disastrose in termini economici e politici dell’unificazione europea stessa, per non parlare della politica estera, supinamente succube di quella statunitense, come viene ricordato nel libro (p. 101) e come un qualunque osservatore razionale è in grado di rendersi conto anche nella semplice osservazione di quanto sta accadendo in questi ultimi mesi di attualità internazionale.

Per quanto riguarda la drammaticità dei problemi che il tempo presente ci offre, e il rapporto di causalità che li lega al libero scambio e alla pochezza dell’analisi e delle soluzioni offerte da un sistema politico perpetuato da guitti e macchiette, è esemplare l’analisi dedicata all’Ambientalismo e libero scambio. Nell’omonimo capitolo, si parla diffusamente delle conseguenze nefaste che il libero scambio di merci (e persone) ha avuto nei confronti dell’ambiente: sia per quanto riguarda gli aspetti di salvaguardia ambientale in senso stretto, come per esempio nel caso della deforestazione, sia per quanto riguarda l’emissione di CO2 e più in generale la qualità dell’aria. Nella sua forma maggioritaria, esso è costituito da commercio marittimo (con il conseguente inquinamento da plastica o sostanze chimiche negli oceani). Il capitolo, tramite l’analisi di dati, analizza e smonta il mito secondo cui l’inquinamento sarebbe derivato solo dalla crescita economica e non anche dal libero scambio (p. 119); cosa che altrimenti sarebbe incompatibile con la deliberata scelta della delocalizzazione verso i paesi in via di sviluppo, e non solo per l’aspetto legato ai bassi prezzi della forza lavoro. Ogni analisi dall’alto finalizzata all’azione politica tende a escludere sistematicamente questo aspetto (anche perché diversamente l’unica soluzione sarebbe un cambiamento a livello strutturale. Per i motivi a cui abbiamo fatto accenno prima, anche un punto di vista marxista in senso deteriore e accelerazionista tende a prediligere la mondializzazione del libero scambio. E infine, anche la prospettiva della cosiddetta “decrescita” si ritrovano a essere quindi utili idioti del Capitale, in quanto la loro proposta coinvolge la produzione tour court, ignorando totalmente le differenze essenziali tra la produzione di economie diversificate e quella che invece si basa sul liberoscambismo portato alle estreme conseguenze. Le stilettate più gustose sono quindi riservate a Greta Thunberg, definita sapientemente “paladina dell’ambientalismo mondialista”. La sua retorica viene decostruita a partire dal concetto di “frugalità”, che in qualche modo sembra rimettere allo stile di vita individuale e al buon cuore delle persone una situazione iperbanalizzata guardandosi bene «dallo spendere qualche parola circa i cambiamenti che andrebbero in concreto apportati per arginare il carattere ciecamente predatorio del capitalismo» (p.124). E ancora: «Regolamenti derivanti da accordi internazionali o, meglio ancora, sovranazionali, che rendano la produzione mondiale e il commercio mondiale “green”, da attuarsi mettendo finalmente da parte inetti leader politici nazionali; questo è in essenza il messaggio implicito delle invettive della Thunberg» (p. 125). Si nota quindi una corrispondenza essenziale tra un certo tipo di discorso economico, neoliberale e mondialista, con un modello politico di sostanziale svuotamento delle sovranità nazionali, che verrà trattato ulteriormente proprio nel capitolo dedicato all’Unione Europea. Per concludere quindi il discorso sull’ambiente, viene ribadito che sia la riorganizzazione economica verso l’autosufficienza nazionale che eventuali forme di “protezionismo” anche in un’ottica genuinamente ecologica non andrebbero a costituire uno scarto di paradigma economico o la risoluzione di alcuni problemi strutturali, ma solo un tamponamento dei danni più grandi accompagnato da una crescita del potere contrattuale dei salariati. Anche la questione del turismo, per le proprie conseguenze deleterie in termini ambientali, urbani e in generale antropologici, è posto in continuità con quanto abbiamo detto fino a questo momento sull’ambiente. Viene quindi analizzata tutta la tragica inconsistenza di un’economia che vede nel turismo internazionale una fonte, instabile, di entrate economiche.

Nelle ultime pagine vi è quindi una sistematizzazione di quanto si è prima rapsodicamente accennato alle problematicità strutturali dell’architettura europea, di cui si ricorda più di una volta la sua natura essenzialmente liberista, espletata economicamente proprio attraverso le tre mobilità che costituiscono l’oggetto della trattazione del lavoro in corso d’opera di Barba e Pivetti.

Le soluzioni offerte dai due autori, per loro stessa ammissione, non sono delle proposte in grado in alcun modo di portare a un cambio di paradigma economico. Essi auspicano la nascita di «forze politiche capaci di perseguire con coerenza la piena occupazione come obiettivo primario della politica economica, dunque anche la riduzione del contenuto di importazioni della domanda finale e il controllo di tutte le transazioni con il resto del mondo» (205), e che quindi si pongano in divergenza eterodossa rispetto a quelle stesse strutture europee sotto cui si troverebbero a operare in seno allo Stato e con obiettivi politici chiari, dettagliati ed espliciti.

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Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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