Se un generale principio di costituzionalità dovrebbe uniformare l’azione del governo della Repubblica, ebbene a questo principio dovrebbero corrispondere delle traduzioni pratiche di formulazioni di interventi diretti nella vita del Paese mediante proposte di legge, decreti o quanto altro che non contraddicano i valori della Carta del 1948.

In parole non povere, ma piuttosto chiare e schiette, senza troppi fronzoli lessicalmente barocchi, l’esecutivo, in quanto tale, deve rendere eseguibile la normativa vigente e farsi promotore di iniziativa che correlino il diritto con la vita di ogni giorno dei cittadini e di tutte e tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato.

Vale anche per il mare. Vale anche per quella porzione di Italia che non è propriamente e solidamente tale, perché impalpabile ma che le carte nautiche definiscono, attraverso confini immaginari tanto quanto quelli terrestri, con linee rette, prive di quella originalità di tracciamento che deriva dai secoli dei secoli, da diatribe, lotte, cessioni e controcessioni di contee, marchesati, ducati e regni di un tempo, per arrivare fino ai giorni nostri.

Se, dunque, la Costituzione vale per terra e per mare, il governo dovrebbe occuparsi di quello che vi accade alla medesima maniera, distinguendo solo le modalità di intervento: un terremoto e un naufragio sono due criticità ben distinguibili ma, al contempo, sono anche accomunabili dal fatto che si tratta principalmente di salvare delle vite e poi tutto il resto.

Ebbene, se un generale principio di costituzionalità deve uniformare l’azione del governo, prima ancora della Costituzione stessa dovrebbe essere un principio di umanità, una empatia che vada ben oltre la simpatia politica, la comunanza delle idee o degli interessi di partito o di maggioranza, a dare forza agli intendimenti di Palazzo Chigi.

Un governo, quanto più si allontana dal rapporto diretto con il Parlamento, considerandolo quasi soltanto un passaggio formale nell’approvazione delle proprie politiche, tanto più perde la percezione – seppure indiretta – della dialettica e del movimento di opinione tra i partiti che, di riflesso, non possono non subire le tendenze assunte di volta in volta dalla tanto celebrata “opinione pubblica“.

Visto come la popolazione si esprime durante le votazioni politiche, vi sarebbe da dubitare sull’attendibilità della circostanziazione degli eventi da parte della popolazione e, soprattutto, della formulazione di una coerente, critica e cosciente interpretazione tanto dei fatti quanto delle idee che si affastellano e si accatastano alla rinfusa rendendo ottundente qualunque possibilità di comprensione genuina di quello che ogni giorno ci accade intorno.

Ma, sarebbe forse peggio se, svilendo le potenzialità della compiutezza di una sintesi anche politica dei fenomeni sociali da cui il Paese è attraversato, sia locali sia di portata più ampia, continentale o globale, da parte della cittadinanza, si lasciasse al solo governo il compito di essere l’unico arbitro della situazione data. Come nel caso dei tragici fatti di Cutro.

Il controbilanciamento galante e sincero, opportuno e tempestivo del Presidente della Repubblica, che ha letteralmente capovolto la scandalosa narrazione del ministro dell’Interno (unitamente alla solidarietà totale manifestata dagli altri membri dell’esecutivo, nonché dalla stessa Presidente del Consiglio), si inserisce dentro un dibattito che il Paese ha questa volta condotto senza troppi infingimenti.

Da una parte la retorica imperversante di chi deve per forza difendere l’indifendibile inazione del governo; dall’altra chi, molto trasversalmente, ha dato vita a manifestazioni di piazza per sollecitare anche le istituzioni ad un sussulto di dignità dentro un contesto di disumanità costante.

Gli interventi del Capo dello Stato sono serviti a dare al principio di costituzionalità da seguire una tonalità rinvigorita, senza apparire un semplice richiamo all’ordine sul terreno più semplicistico di un dovere istituzionale.

Tutt’altro. Mattarella ha posto la questione etica nella politica e ha ricordato che proprio la Repubblica è sinergia di elementi tutt’altro che contraddittori e nemmeno dati per scontati nella loro unità corroborante la giornaliera azione di governo di una Italia con una scarsa memoria della Storia e una voglia di obliare anche buona parte delle cause di tante tragedie che circondano il nostro presente, nel tempo e nello spazio.

Se il governo Meloni ha deciso, tardivamente, di dare un segnale di ricompostezza istituzionale, questo non significa che abbia preso coscienza del suo ruolo di tutela assoluta delle esistente di tutti i cittadini, di tutti coloro che vivono in Italia o che si avvicinano alle coste della Repubblica per chiederle aiuto, per chiederci una mano tesa dopo essere fuggiti da regimi oppressivi, vite invivibili, esistenze decomposte da autoritarismi totalizzanti e declinazioni teocratiche di società che avrebbero potuto essere invece laicizzate da tempo.

Le parole del Presidente della Repubblica sono l’equilibrio che manca ad un’Italia indirizzata su una via di esclusivismo, di conservazione, di reazione.

E’ lo specchio deformante di una politica meloniana che nega le collusioni col passato (e presente) post-fascista, reclama tutta la modernità di un sovranismo nazionalista capace di sposarsi con liberismo nordatlantico sui temi della guerra per procura, mentre vede come una minaccia ancora più seria i fenomeni migratori che, come è noto, non prescindono da altro se non da fame, morte, miseria, guerre imperialiste e regimi sostenuti dal ricchissimo “occidente“.

La vicenda di Cutro non riguarda solamente la tragedia di decine e decine di morti che, in larga parte, resteranno anonimi traversatori di un destino finito nelle gelide acque del Mediterraneo.

Quanto avvenuto davanti alle coste della Calabria mette il dito nella piaga di una insensibilità ideale che è pratica politica, di una omissione cosciente di etica civile che dovrebbe invece essere uno dei pilastri dell’ordinamento repubblicano e, quindi, un chiaro riferimento a quei principi di costituzionalità più volte chiamati in causa.

A cosa dovrebbe rispondere un governo se non ad una morale vincolata al rispetto di un giuramento tutt’altro che rituale?

Essere fedeli alla Repubblica ed osservarne lealmente la Costituzione vuol dire sacrificare le proprie convinzioni nel nome delle contingenze che si presentano come schiaffi davanti a noi ogni laicissimo e santo giorno. Vuol dire venire a patti non con i propri princìpi e lasciarli indietro, ma cercare di adeguarli alla fattualità, ai contesti in cui si deve fare i conti con eventi più grandi di noi, dell’Italia stessa, del nostro particolare “nazionale“.

Non siamo un’isola, isolata in sé stessa. E quando anche lo fossimo, sono soprattutto le isole e gli arcipelaghi che hanno dato vita in questo mondo moderno alle più grandi rivoluzioni industriali, economiche, politiche e sociali. Tanto ad occidente quanto ad oriente. A dimostrazione del fatto che la globalità del villaggio in cui ci troviamo è un dato di fatto e niente e nessuno è separabile tanto dal suo vicino di casa quanto dal più lontano degli esseri umani nel più remoto dei continenti.

Il governo migliore – sosteneva Thoreau – è quello che governa meno. Geniale provocazione dettata dalla convinzione che più un esecutivo si produce in atti e risoluzioni, più complica gli interessi di parte che intende rappresentare: quasi mai quelli di tutta la popolazione. Non fosse altro per spirito elettorale ed ideologico.

E fin qui la colpa è ben poca, perché una maggioranza ha tutto il diritto di provare a realizzare i compiti per cui – così dovrebbe essere… – è stata delegata ad amministrare un paese ed un popolo.

Ma non ha diritto in quanto maggioranza a soffocare i diritti delle minoranze. E, soprattutto, non ha diritto a considerare le minoranze, i loro problemi e i disagi diffusi di una parte delle persone come degli accidenti da risolvere nel minor tempo e nel più sbrigativo e indolore modo possibile.

Proprio dai più deboli e dai più fragili dovrebbe prendere inizio l’attività di governo di una nazione, perché solo in questo modo tutti potremmo avere la garanzia sufficiente a sentirci tutelati nel caso, domani, in minoranza fossimo noi.

Ma questo il governo delle destre estreme, della conservazione e del nazionalismo del nuovo millennio non è in grado di farlo. Né a Roma né a Steccato di Cutro. Né realmente né simbolicamente. Prima o poi l’esecutivo strozzerà su sé stesso, accumulando contraddizioni su contraddizioni.

Un nuovo fronte progressista, scevro da rapporti con un centro dissimulatore del proprio punto focale esclusivamente liberista e privatizzatore a tutto tondo, dovrebbe preparare una alternativa alle destre su un programma che contenga anzitutto una serie di principi di costituzionalità da rispettare indefessamente, senza tentennamenti.

Capovolgendo così la retorica dei conservatori reazionari che oggi, andando verso i lidi della Calabria, vorrebbero farci credere di aver fatto tutto il possibile per salvare quei settanta migranti invisibili che solo la coscienza di una larga fetta di popolo e di una parte importante delle istituzioni si è rifiutata di considerare come la conseguenza di partenze che non dovevano essere affrontate.

Partire non è un po’ morire. Partire, in questi casi, è un po’ sperare di poter vivere. E magari nemmeno in Italia…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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