Giulio Di Donato 

La necessità ma anche l’estrema difficoltà di promuovere una posizione politico-culturale diversa e autonoma, oltre e contro la subalternità alle agende altrui, la ricerca di una qualche forma di legittimazione dall’alto e la “tentazione del ghetto”. Il tutto mentre uno stato di “stanchezza democratica” sul piano interno e di disordine globale sul piano esterno fa da sfondo al teatrino triste della politica, che sembra ormai essersi passivamente stabilizzato attorno alle usurate coordinate tradizionali.

Come è noto, l’attuale fase storica è caratterizzata da una grande mobilità degli elettori e da cicli di popolarità politica temporalmente sempre più ristretti. Prevale ovunque il desiderio di novità e la tendenza ad affidarsi a leader sempre diversi, salvo disamorarsene con grande facilità. Di fronte a questo scenario di marcata fluidità negli orientamenti politici pare resistere maggiormente chi è capace di una comunicazione efficace e innovativa, declinata in una chiave fortemente personalistica e polarizzante.

Novità, capacità comunicativa e radicalità (a buon mercato) non mancano al profilo di Elly Schlein: questi aspetti assieme alla fiammata legata allo sprint delle primarie sembrano spiegare la leggera risalita del Pd a livello di sondaggi, per quel poco che valgono.

Questo vale naturalmente nel breve. Nel medio-lungo periodo è ragionevole attendersi una tendenza al ripiegamento rispetto alle percentuali di cui il Pd si è finora giovato (astensionismo permettendo), se la leadership di Elly Schlein si adopererà per imprimere al Pd una torsione, quanto a profilo politico-culturale, simil Sinistra italiana, se cioè le (non)risposte del nuovo gruppo dirigente alle urgenze più sentite del tempo presente e futuro saranno quelle che molti si aspettano, ovvero quelle in linea con l’agenda Repubblica/Manifesto. Va però anche ricordato il fatto che i burocrati rampanti del Partito democratico sono sempre stati capaci di introdurre delle precise contro-misure a garanzia degli equilibri interni quando i vertici della segreteria erano troppo connotati in un senso o nell’altro: in questo modo venivano preservate le percentuali consolidate di consenso e la natura liquida e indeterminata del Pd, il quale è tanto un equivoco dal punto di vista della cultura politica, salvo una mai troppo approfondita adesione ai canoni del liberal-progressismo, quanto monolitico nel suo ruolo di garante di sistema del vincolo esterno di matrice euro-atlantista.

La vittoria di Elly Schlein accelera comunque i processi in corso in vista di una stabilizzazione del sistema politico intorno alle coordinate abituali, in ciò spronato dalle vestali fanatiche del potere economico e mediatico dominante, attorno cioè ad un bipolarismo tradizionale asfittico e privo di profondità, che non focalizza il campo sui nodi politici fondamentali, ma su tematiche di comodo che vengono strumentalmente agitate allo scopo di aggirare le vere questioni di fondo: è l’eterno ritorno dell’uguale al tempo della post-democrazia (e della post-sinistra) senza popolo.

Il copione resterà allora quello costantemente utilizzato, fatta salva la parentesi “populista” pre e post 2018: “destra” e “sinistra” rimarranno inchiodate al passato, agitando i fantasmi e le ossessioni di sempre. L’obiettivo di entrambe sarà semplicemente quello di ricompattare il proprio mondo di riferimento, piuttosto che quello di allargare le maglie del consenso oltre il recinto dei già convinti. Sullo sfondo la scomparsa della politica, ridotta al livello elementare dell’inimicizia assoluta (ci si accusa reciprocamente di disumanità, vuoi perché in difetto di umanità o perché a favore di una idea diabolica di trans-umanità) e della celebrazione del corpo del leader, qui inteso per lo più nelle vesti di semplice individualità concreta (d’altronde in questa fase di totale arretramento il giudizio politico coincide e si risolve per la gran parte nel giudizio sulla persona).

Nel frattempo, come prevedibile, si andrà inevitabilmente approfondendo la frattura tra lo spettacolo offerto dal carnevale della politica minima, che tanto appassiona i protagonisti dei vecchi e nuovi media, e il sentire giustamente indifferente e infastidito di buona parte della popolazione italiana, che ripetutamente diserterà i riti logori della democrazia formale per lasciarli in dote alle ztl, ai paladini di single-issue e agli ambienti più ideologizzati. Tuttavia le vie della politica si chiuderanno da una parte, ma si apriranno dall’altra: chissà che non siano proprio l’esodo dai canali tradizionali della partecipazione politica (per esplorare vie inedite, ma più promettenti?) e la comparsa di una verticalità politica di tipo nuovo (auspicabilmente sotto forma di “cesarismo progressivo”) le risposte a questa epoca di fine ciclo, di “stanchezza democratica” e di crisi radicale dei meccanismi di rappresentanza/rappresentazione finora conosciuti, escalation di guerra permettendo.

Il dramma è che questa vera e propria secessione delle masse dalle formule rinsecchite della post-democrazia senza popolo non viene percepita dalle attuali classi dirigenti come un problema, bensì come una risorsa su cui contare per capitalizzare al meglio i livelli minimi di consenso sui quali si può ormai fare affidamento. Ciò nonostante, c’è da aspettarselo, nuovi “barbari” assedieranno prima o poi la cittadella di una politica autoreferenziale e priva di vera propulsione ideale. Speriamo solo che questa irruzione energica dell’imprevisto avvenga in un quadro di vera rinascita e non di caduta definitiva nella barbarie.

Quel che è certo, tornando all’attualità, è che la vittoria di Elly Schlein stravolge i piani di Giuseppe Conte, che si era dato come strategia quella di competere “da sinistra” con un Partito democratico capitanato da Stefano Bonaccini. Ora il Movimento 5 Stelle dovrà, se lo vorrà e se ne sarà capace, necessariamente stabilire un punto di rottura con la sua storia più recente, rilanciando le ragioni di una più o meno equidistante autonomia politico-culturale dalla sterile contrapposizione centrodestra/centrosinistra, pena la sua graduale irrilevanza. Sulla base di una piattaforma che, molto semplificando, potremmo definire “neosocialista”, poiché collocata dalla parte del nucleo sociale della Costituzione, del senso dell’autonomia della politica e di una visione strategica dell’interesse nazionale (da declinare in termini progressivi sul piano interno e orientati verso il multipolarismo e la ridefinizione degli assetti europei sul piano esterno), all’interno di un contesto globale per definizione al tempo stesso cooperativo e competitivo.

Insomma, il Movimento di Beppe Grillo e Giuseppe Conte appare destinato a ridimensionarsi sempre più se non ritrova i motivi della sua funzione storica di critica radicale ma non velleitaria dell’esistente, contrastando l’eccesso evidente di conformismo e subalternità alle parole d’ordine del progressismo delle élite. Per fare questo dovrebbe avere il coraggio di andare oltre se stesso, aprendosi a nuove energie, in particolare alla nuova realtà associativa annunciata da Alessandro Di Battista. Per poi provare a riconnettersi nuovamente con i bisogni e gli umori popolari e contestualmente intestarsi l’opposizione al Governo Meloni nel nome del riscatto popolare e dei diritti sociali presi sul serio: ciò significa rivendicare la necessità di una politica decisamente meno accondiscendente verso il vincolo esterno euro-atlantista e molto più inflessibile nel contrastare le vecchie e nuove forme di esclusione sociale, che oggi incorporano anche un’esigenza diffusa di una vita qualitativamente diversa contro solitudine, frustrazioni e assenza di significati.

Il compito però più difficile sarà quella di sottrarsi al riflesso condizionato delle polarizzazioni che, ieri come oggi, agitano lo scontro politico e sulle quali solo può esserci vera dialettica, sebbene strumentalmente ristretta a una contesa propagandistica tra un punto di vista restrittivo/conservatore e uno liberal-progressista (rimane drammaticamente ai margini una posizione diversa, critica tanto verso i primi, quanto verso gli eccessi e le ipocrisie dei secondi). Eppure bisognerebbe alzare lo sguardo oltre il quadro delle compatibilità date imposto dai nuovi padroni del discorso pubblico, costellato di semplificazioni, rimozioni e premesse assunte acriticamente come punti di partenza mai problematizzati; oltre cioè le contrapposizioni che scaldano gli animi dei pochi ma lasciano indifferenti i molti, che alimentano la chiacchiera superficiale e sterilizzano i buoni argomenti, che rianimano antiche certezze mentre marginalizzano i buoni propositi, che giocano in difesa di schemi superati contro la complessità e le novità del reale.

Abbiamo appena fatto riferimento alle parole d’ordine del progressismo mainstream: ebbene tra rigetto aprioristico e adesione ingenua va coltivata una terza via che passa per la traduzione in chiave critico-problematizzante di formule magiche quali “transizione ecologica e digitale”, denunciando il lato oscuro che si cela loro dietro, ovvero il rischio evidente che certe promesse luccicanti dal volto “umano e sostenibile” vengano strumentalizzate e messe al servizio della macchina occidentale a trazione statunitense in crisi che cerca nuovi canali per rilanciare e rilegittimare sé stessa sia sul fronte produzione-consumo (con riferimento soprattutto ai settori emergenti del grande capitale internazionale) che sul fronte ideologico e di lotta geopolitica. Bisogna in definitiva essere consapevoli della strada da imboccare: se verso una transizione regressiva nel segno dell’impoverimento generalizzato, tanto economico quanto esistenziale, oppure in direzione di una stagione di progresso sociale ampio e inclusivo. Poi c’è il tema delle nuove istanze di libertà individuale. Anche in questo caso: assumere un punto di vista solidaristico, ostile alle logiche della mercificazione e del nichilismo individualista (da qui, ad esempio, una posizione contraria all’utero in affitto, ma favorevole alle adozioni per single e coppie dello stesso sesso) o alimentare guerre di religione fuori tempo massimo ad uso e consumo dei nuovi poteri globali? Infine la grande questione immigrazione, che reclama un governo politico dei flussi migratori nel segno della sostenibilità interna e della solidarietà internazionale: c’è invece chi si ferma al pezzetto finale legato agli arrivi (la sinistra) e chi solo a quello iniziale legato alle partenze (la destra), mentre pochi guardano al fenomeno nella sua complessità. Lo stesso accade con la guerra in Ucraina: si assolutizza un dato momento (per cui tutto inizierebbe nel febbraio 2022) e si rimuove l’insieme di cause profonde e antefatti. La complessità, questa sconosciuta, ci verrebbe da dire. Al suo posto solo moralismo ipocrita e becera propaganda.

Ma la difficoltà più grande per chi si sente impegnato sul terreno di un’iniziativa politico-culturale diversa e autonoma, tanto dall’ossessione per una comfort zone protettiva quanto dalla “tentazione del ghetto”, è quella di rimotivare politicamente l’elettorato popolare in fuga con il suo carico crescente di sfiducia, disillusione e rancore, frastornato a colpi di uso politico-mediatico delle emergenze (reali o enfatizzate che siano) e di propaganda martellante di guerra, che crede sempre meno all’ipotesi di una politica nuovamente in grado di intrecciare le condizioni di vita materiale e spirituale delle persone, anche alla luce delle metamorfosi tristi dei presunti homines novi della politica italiana.

Servirebbe tanto, e forse quel tanto non sarebbe nemmeno sufficiente. In quel tanto ci sono nuove parole d’ordine mobilitanti, capaci di condensare una quantità complessa e infinita di singole questioni in poche idee-forza, che però si presentano alla maggioranza della popolazione come problemi che segnano il destino della loro vita. C’è una nuova classe dirigente finalmente sintonizzata con “la missione e l’età del proprio tempo”, capace di navigare in mare aperto, per agganciare la trasversalità, ponendo una sfida, come abbiamo ribadito più volte, anche spirituale, oltre che etico-politica e materiale. C’è infine la necessità di pensare a forme nuove di contestazione e di stabilire un nuovo antagonismo, una nuova frontiera politica, perché è il dire chiaramente ciò a cui ti contrapponi che crea lo spazio e le condizioni per poter esistere e agire politicamente. Mettendo in rapporto il chi siamo e il chi eravamo con il chi saremo, riconciliando cioè l’orientamento verso il futuro (il non-ancora) con lo sguardo verso il passato (il rammemorare). A partire da una rivendicazione in chiave collettiva, non occasionale né strumentale, di un bagaglio di appartenenze e memorie dinamico, propositivo e rivolto al futuro, mai statico, ipostatizzato o solo nostalgico.

Come abbiamo scritto, se non può essere replicata nelle forme del passato la tensione parareligiosa verso il futuro da cui le fedi politiche del secolo scorso traevano alimento (il riferimento è alle forze organizzate del movimento operaio di ispirazione marxista), tale spinta non può comunque essere dismessa del tutto: deve piuttosto incorporare promesse meno ambiziose (poste su un terreno che non coinvolge più principalmente il momento economico, ma ruota attorno al nesso tecno-scienza/tecno-economia e alla natura/destino dell’umano, con le sue domande di una qualità di vita diversa e di un differente modo di relazionarsi a se stessi e agli altri) e va messa in rapporto con altro. Giocando con le parole, il senso dell’oltre deve oggi procedere di pari passo con il contro e con il prima: con l’ovvia “verità del politico” come antitesi di amico-nemico, con l’elemento polemico basato su alcune fondamentali dicotomie presente nel discorso populista (da riarticolare sull’asse vincolo esterno/vincolo costituzionale); e con il prima, ovvero con il fondo comunitario della vita collettiva, intrecciando visioni critiche e sedimentazioni di senso, credenze popolari e forze materiali, orizzonte simbolico e piano concreto, dimensione politica e dimensione spirituale. Il tutto a partire da un’interpretazione progressiva del nazional-popolare e nel nome delle migliori esperienze del passato

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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