Mario Barbati

In sei mesi di governo Meloni si è parlato di tutto tranne che della realtà. Ma la realtà, presto o tardi, ti insegue e la vera notizia è che in Italia dopo tre anni di pandemia le protezioni sociali sono diminuite, mentre nel resto d’Europa aumentano. Senza il Rdc, sostituito da una misura ridotta, più restrittiva e per la verità non ancora varata, l’Italia resta priva di strumenti universali. Rimangono gli ammortizzatori selettivi, quelli per capirci dov’è prevista la Cassa integrazione. Gli altri Paesi, invece, hanno approfittato della pandemia per aumentare i sussidi e gli ammortizzatori: in Germania e in Spagna i sostegni al reddito sono strutturali, il Bürgergeld e l’Ingreso mínimo vital hanno avuto un incremento di importi. Anche il salario minimo legale cresce in entrambi i Paesi.

Il governo Meloni è invece da sempre contrario al salario minimo e al momento non ha concretizzato nemmeno la formazione prevista e le politiche attive. Ma ha trovato il modo per fare 12 condoni nell’ultima finanziaria e ha tagliato la spesa sanitaria che passerà dal 6,4% del Pil del 2019 al 6,1% programmato per il 2025. Proprio ora che il sistema sanitario senza medici e personale rischia il collasso. Così mentre la Spagna ha creato 2,5 milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato, grazie alla riforma del lavoro che abbatte il precariato, in Italia quasi la metà dei contratti a termine non supera i 90 giorni e c’è il record di part-time involontario nell’Unione Europea. Vuol dire che l’11% di chi lavora vorrebbe farlo full-time ma deve invece accontentarsi di mezza giornata. Con il ripristino dei voucher voluto da Meloni il lavoro sarà sempre più precario e privo di diritti.

Non solo. L’Italia, che come sappiamo è l’unico Paese in Europa dove gli stipendi sono diminuiti dal 1990, avrebbe potuto approfittare, visto che i vincoli del Patto di stabilità sono ancora sospesi (mentre a breve torneremo all’austerità) per provare a fare investimenti finalizzati ad aumentare il tasso di crescita e di conseguenza far calare il rapporto debito/pil. Il governo Meloni, invece, ha deciso non solo di non approfittarne, ma di tagliare tutto il tagliabile: dalla sanità al superbonus.

Per sei mesi però, si è parlato poco di questo e si è dibattuto ogni giorno di altro. Per esempio, del “decreto rave” e dei raduni “pericolosi”, di sparare ai cinghiali nelle aree urbane, se si dice “il” o “la” presidente del consiglio, di alzare la soglia per l’obbligo del Pos, di Dante Alighieri “fondatore del pensiero di destra”, di riforme della (in)giustizia annunciate e non varate, di nuovi benefici per chi commette reati contro la pubblica amministrazione, del nuovo Codice degli appalti “aperto” agli indagati. E ancora: di stragi in mare che si potevano evitare, di scafisti da “cercare lungo tutto il globo terracqueo”, di Ponte sullo stretto, del reato di tortura, dei prodotti con la farina di insetti, di maternità surrogata, gestazione per altri, uteri e forni, di liceo del made in Italy, di multe per chi usa i “forestierismi”. Fino al nuovo horror-cult nazionale: l’anti-antifascismo che confonde la Resistenza con le bande musicali.

Solo che la realtà, presto o tardi, ti insegue e così il ministro Fitto la tira fuori dal cilindro dichiarando a proposito del Pnrr che “alcuni interventi da qui al 30 giugno 2026 non possono essere realizzati, è matematico, scientifico che sia così, dobbiamo dirlo con chiarezza”. La Corte dei conti denuncia ritardi e rallentamenti nella spesa e nel raggiungimento degli obiettivi e l’Ue congela la terza rata per l’Italia. Esponenti della Lega come Molinari dichiarano che “si può rinunciare a una parte dei fondi”, “piuttosto che spenderli male meglio non spenderli”.

E come sempre parte lo scaricabarile. La colpa è di Draghi che non ha rafforzato la pubblica amministrazione, o meglio di quel gran genio di Brunetta che prevedeva di assumere un migliaio di persone ma a termine, con concorsi che spesso sono andati a vuoto a causa dei salari troppo bassi. Ma non ci avevano detto che il governo dei Migliori avrebbe messo in sicurezza almeno il Recovery plan? Su 15 miliardi di spesa previsti per il 2021, solo 5 sono stati effettivamente “messi a terra”. Sul totale dei fondi, alla fine del 2022 ne sono stati spesi solo 23. Ma i sostenitori del governo Draghi non ci stanno, così la colpa è di Meloni e del suo governo che è quasi immobile con le riforme che servono per raggiungere i 27 obiettivi del primo semestre 2023.

Il governo Meloni però non ci sta, così la colpa diventa di Conte che ottenne i fondi del Recovery, anzi troppi fondi. Maledetto Conte, ha portato 209 miliardi dall’Europa e stava creando una task force centrale che magari sarebbe stata anche in grado di seguire tutti i progetti, prima che gli facessero cadere il governo. Poi arrivò Draghi che spostò la cabina di regia al Mef, poi arrivò Meloni che riportò ma solo in teoria la cabina di regia dal Mef a Palazzo Chigi e al mercato che mio padre comprò. L’ennesimo cambio di governance del Pnrr (già soltanto il nome scelto lo rende distante e freddo) era stato annunciato da mesi ma nella pratica il decreto è in discussione solo in queste ore al Senato.

In campagna elettorale Meloni disse: “È finita la pacchia, l’Italia si metterà a difendere i suoi interessi nazionali”. Forse comincerà a farlo quando il suo governo si dimetterà. Resta infatti una domanda: cosa farsene di un governo patriottico, sovranista e sciovinista che si occupa di tutto tranne che delle cose concrete, che lascia il Paese senza protezioni sociali, senza sanità pubblica e senza una visione progressiva dell’interesse nazionale? È solo una tortura, senza farina ma con tanti insetti

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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