Dinanzi all’unificazione europea delle borghesie nazionali, che non disdegnano affatto l’unità d’azione con le borghesie statunitensi o asiatiche nel caso in cui ciò risulti funzionale all’attacco ai salariati, i lavoratori europei devono ricercare forme d’unità necessariamente più ampie.

 di Renato Caputo  

Emblematico della natura liberista dell’Unione europea è il caso della direttiva di Parlamento e Consiglio europeo, su proposta della Commissione – a dimostrazione del fatto che non si dà un parlamento buono e un consiglio cattivo – concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro [1], che in concreto autorizzava già, quasi venti anni fa, uno spaventoso aumento del plusvalore assoluto. Tale direttiva era volta a precarizzare ulteriormente le condizioni di lavoro, rendendo l’orario flessibile e dipendente dalle necessità della produzione: le 48 ore settimanali potevano, sulla base delle esigenze padronali, trasformarsi in 65.

Su tale linea si è posta, immediatamente dopo, la famigerata direttiva Bolkestein, redatta dall’ex commissario F. Bolkestein, che ha avuto l’obiettivo di liberalizzare i servizi (cultura, istruzione, tutela della salute, ecc). Tale operazione è stata coperta ideologicamente con la necessità di salvaguardare l’esistenza di quelle piccole e medie imprese destinate altrimenti a soccombere per la concorrenza delle multinazionali. La grande borghesia, causa reale della proletarizzazione della media e piccola, le ha ricompattate sotto la propria rovinosa egemonia a spese dei diritti dei lavoratori. Le piccole imprese sono state, così, ulteriormente incoraggiate a tentare di sopravvivere nella giungla del mercato non mediante innovazione tecnologica, ma con l’aumento dell’orario di lavoro (plusvalore assoluto). 

D’altra parte la burocrazia europea al servizio del padronato ha dimostrato d’essere sempre pronta a contravvenire al principio del libero mercato, da essa stessa imposto a fondamento dell’Unione Europea. In effetti, ogni qualvolta è tornato utile a un avanzamento del fronte borghese tale principio è stato violato, come è accaduto a livello internazionale imponendo, ad esempio, alla produzione agricola europea ingenti sovvenzioni statali che hanno reso poco competitivi i prodotti del Terzo mondo, condannando i suoi lavoratori alla fame o alla necessità di emigrare in Europa per infoltire “l’esercito industriale di riserva” e aumentare la ricattabilità degli occupati. Altro che “migranti”: si tratta di veri e propri deportati della borghesia imperialista, che li costringe ad abbandonare il proprio paese e li sfrutta ideologicamente per dividere la classe lavoratrice, finanziando organizzazioni xenofobe che gli imputano di essere causa della disoccupazione; li sperona lasciandoli annegare in mare o, nel migliore dei casi, li rinchiude nei nuovi campi di concentramento, i Cpt, per deportarli in paesi del Maghreb e da lì, complici classi dirigenti corrotte, abbandonarli nei deserti africani.

Allo stesso modo, se per quel che concerne la circolazione di capitali l’Unione è rigorosamente liberale, per quel che riguarda la manodopera è protezionista, impedendo la libera circolazione nella fortezza Europa agli extra-comunitari, ai lavoratori dei paesi di più recente ingresso o ad alcune categorie professionali i cui redditi di lusso sono preservati da albi professionali di sapore medievale. In tal modo, le grandi industrie sono state incoraggiate a delocalizzare la produzione nei Paesi di più recente ingresso, nei quali è disponibile un esercito industriale di riserva qualificato, a basso costo e privo di adeguate garanzie sindacali. Tuttavia, la delocalizzazione comporta dei costi. Anche a ciò provvedeva il Trattato costituzionale, sancendo la libertà di circolazione dei servizi quale “valore fondamentale” dell’Unione. Il Trattato è stato bloccato dai popoli europei, ma non la liberalizzazione dei servizi. Le imprese di servizio dei paesi a bassi salari sono state, di fatto, incoraggiate a operare in tutte le nazioni alle condizioni sociali del loro Paese d’origine.

Il dumping sociale volto a spingere a livello più basso la protezione del lavoro non si è, dunque, arrestato neppure con la sonora bocciatura della Costituzione europea nei referendum popolari francesi e olandesi. Il dumping si può legalmente esportare sulla base del “principio del paese d’origine”, cardine della direttiva Bolkestein [2]. Sulla sua base un prestatore di servizi è sottoposto alla legge del paese dove ha sede legale l’impresa e non più alla legge della nazione dove fornisce il servizio. Si tratta del massimo supporto legislativo fornito ai padroni per precarizzare le condizioni di lavoro delle classi subalterne. 

Anche tale direttiva è stata calata dall’alto dai tecnocrati, che neppure si prendono più il disturbo di concertare con le corrotte dirigenze sindacali europee, né tanto meno di consultare e sottoporre i loro progetti al voto dei lavoratori. A ulteriore conferma di quanto detto, la direttiva è stata il frutto d‘un progetto bi-partisan che ha ricompattato l’intera borghesia europea al di là delle differenze nazionali o politiche. Risultato d’un processo elaborato da una commissione a maggioranza di centro-sinistra, con a capo quello che era il candidato unico della coalizione anti-Berlusconi: Prodi, la direttiva è stata accolta dal centro-destra in seguito al governo in Europa, senza che ciò comportasse un qualsiasi ripensamento da parte di chi l’aveva proposta, che ne ha rivendicato la piena validità – subito dopo la manifestazione dei lavoratori di tutta Europa che l’aveva contestata. Le stesse differenze fra vecchia Europa presuntivamente antiamericana e nuova filo-Usa erano del tutto venute a cadere.

Le multinazionali, cui nessun governo nega cittadinanza, sono state ulteriormente indotte a prendere la nazionalità dei paesi in cui la classe lavoratrice è più debole, portando la forza-lavoro meno tutelata a far concorrenza al ribasso a quella che era riuscita a ottenere condizioni più favorevoli. Il fronte dei lavoratori ne è uscito ancor più frazionato, rafforzando le irrazionali pulsioni razziste e xenofobe, come già visto nel caso del voto sulla Costituzione europea, in cui alla percezione distorta delle masse il nemico da battere appariva l’idraulico polacco e non il fronte unito del padronato continentale e dei suoi lacchè politici. D’altra parte, tale normativa è fortemente svantaggiosa persino per i lavoratori del paese in cui il costo della manodopera era minore, ovvero per il famoso operaio polacco. Egli non avrebbe potuto far aumentare il misero costo della propria forza-lavoro, poiché non poteva più contare su salari più elevati dei colleghi occupati in patria, né potrà rivendicare uno stipendio “europeo” o tentare di sfuggire al proprio destino emigrando. I lavoratori dei paesi dell’est ultimi entrati nell’Ue impiegati in Italia lavorano già da tempo con salari apparentemente di poco superiori a quelli dei loro colleghi rimasti in patria, in realtà notevolmente inferiori dato il costo della vita decisamente superiore. 

Sarebbe, dunque, essenziale rilanciare la mobilitazione non solo contro tali inique direttive, ma contro le norme del Trattato costituzionale, fatte poi approvare un po’ alla volta, alla chetichella, che hanno sancito con il Trattato di Lisbona tali processi di attacco ai diritti dei lavoratori. 

A rendere ancora più complessa una ripresa della mobilitazione, vi è il dato di fatto che i trattati neoliberisti su cui si fonda l’Unione europea sono generalmente di durata illimitata, dal momento che vi è, in linea di massima, bisogno dell’unanimità dei paesi europei, caso unico al mondo, anche per la più insignificante revisione. Alla luce di tutto ciò, aveva certamente ragione Lenin a osservare che gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari

Non potendo concludere con l’annosa questione del Che fare?, che spetta necessariamente ai lavoratori in lotta, ci limitiamo a far notare come, a dispetto degli acritici ideologi del “nuovo”, resti valido il motto con cui si chiudeva, nel lontano 1848, il primo manifesto politico dei comunisti redatto da Marx ed Engels: “lavoratori di tutto il mondo unitevi!”. Come è chiaro, infatti, la salvezza non può venire dall’esterno, né dai conflitti interimperialisti, né dai conflitti interni alle borghesie nazionali, in Italia comunemente definiti centro-destra e centro-sinistra, in Europa popolari e socialisti. Il conflitto in gioco è un conflitto di classe e si può vincere solamente se si è in grado di mettere in campo delle forme di unità più ampie di quelle dei propri nemici. Dinnanzi all’unificazione europea delle borghesie nazionali, che non disdegnano affatto l’unità d’azione con le borghesie statunitensi o asiatiche nel caso in cui ciò risulti funzionale all’attacco ai salariati, i lavoratori europei devono ricercare forme d’unità necessariamente più ampie. Non solo, dunque, con gli altri sfruttati dell’Unione Europea, ma con gli extracomunitari dotati o meno di permesso di soggiorno e con i lavoratori contro cui l’Unione è rivolta; in primo luogo quelli dei paesi del Terzo mondo che condividono lo stesso nemico, al di là d’ogni ideologica contrapposizione di razza, religione o grado di sviluppo, in secondo luogo con i lavoratori dei principali concorrenti dell’Unione: cinesi, giapponesi o statunitensi che siano.

Note

[1] Il documento si compone di una “ Relazione” in tredici punti o articoli; una “ Dichiarazione” che consta di 15 punti o articoli; nella Direttiva vera e propria in nove articoli, ove ciascuno integra o modifica la direttiva CE del 2003/88 e, infine, una “Relazione sull’attuazione” in 5 articoli.

[2] Emblematico l’art.16 della Direttiva: “gli Stati membri provvedono affinché i prestatori di servizi siano soggetti esclusivamente alle disposizioni nazionali dello Stato membro d’origine applicabili all’ambito regolamentato. Il primo comma riguarda le disposizioni nazionali relative all’accesso ad un’attività di servizio e al suo esercizio, in particolare quelle che disciplinano il comportamento del prestatore, la qualità e il contenuto del servizio, la pubblicità, i contratti e la responsabilità del prestatore”.

https://www.lacittafutura.it/editoriali/le-radici-liberiste-che-hanno-reso-irriformabile-l%e2%80%99unione-europea

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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