Impietoso ma non inatteso. Il rapporto dell’ISTAT sullo stato dell’economia italiana, dei rapporti sociali e di lavoro, della mancanza dello stesso e sulla “percezione” che della povertà si ha in larghe fasce della popolazione, è una vera e propria fotografia di un Paese tutt’altro che moderno e di progresso.

Aumentano a dismisura i giovanissimi che non lavorano e non studiano; si allarga la forbice tra ricchissimi e poverissimi; peggiorano i livelli di assistenza pubblica; si inaridiscono tutte le reti di mediazione tra le istituzioni e i cittadini, aumentando così un divario che va ben oltre la sola sfera meramente economica.

Dopo quasi sette mesi di governo Meloni non si registra nessuna inversione di tendenza rispetto, ad esempio, ad interventi necessari per stabilizzare i diritti del lavoro, per aumentarli in virtù di un rapporto con le imprese che non dipenda esclusivamente dalla produttività, ma dalle necessità comuni. Salari e pensioni restano al palo, mentre queste ultime vengono pagate in parte anche dall’occupazione migrante che si è – in qualche modo – stabilizzata e di cui l’Italia ha un notevole bisogno.

Ogni dato che emerge dal rapporto dell’Istituto nazionale di statistica contraddice palesemente le impostazioni programmatico-politiche del governo Meloni: laddove l’esecutivo vede disagio sociale da correggere con norme securitarie si trova invece l’insoddisfazione di bisogni elementari, a partire proprio dai più giovanissimi.

Dove invece Palazzo Chigi individua problematiche di natura economica dipendenti da troppa spesa pubblica, per cui viene meglio privilegiare il ricorso al privato (come nel caso della regionalizzazione esasperata dall’autonomia differenziata), si rilevano sfilacciamenti sociali, progressive inedie di istituzioni locali, prive di finanziamenti nazionali ed europei, e quindi un tessuto collettivo che degrada e si fa sempre più atomizzato e indifferente a soluzioni condivise.

Vince il protocollo dell’arrivismo incentivato da una logica privatistica tipica dei liberisti, a cui le destre si sono prontamente adeguate nella loro opera di distruzione governativa della socialità di Stato. Rispetto a solo cinque anni fa, le persone che si riconoscono un livello di povertà che non conoscevano sono aumentate quasi del 10% e almeno un giovane su quattro vive questa disperazione sulla propria pelle.

Si arriva così a toccare una soglia del 35% di una povertà diffusa, da cui si potrebbe tornare indietro se solamente le politiche economiche invertissero la rotta e dedicassero alle voci di bilancio sociali almeno la stessa attenzione che dedicano alle spese militari, secondo il piano Stoltenberg di aumento delle stesse fino al 2% del Prodotto Interno Lordo nazionale.

Pandemia prima e guerra poi non possono, nonostante la gravità del portato che hanno gettato addosso all’intera comunità, continuare ad essere l’alibi per giustificare ogni manchevolezza istituzionale sul fronte dell’intervento pubblico.

Un dato tra tutti dovrebbe veramente condurre ad una riflessione sostanziale, quasi paradigmatica: il 20% dei giovani tra i quindici e i ventinove anni non studia e non ha un lavoro. Si posiziona in una fascia di inattività che impoverisce la società italiana dal punto di vista civile, morale, culturale e, quindi, anche economico.

Questi ragazzi sono lasciati a loro stessi, privati di una istruzione pubblica che gli spetta di diritto, espunti da un mercato del lavoro che è disposto ad impiegarli solo se già qualificati o se disposti a contratti dove la precarietà diventa un generoso eufemismo…

Se lo scorso anno i dati dell’ISTAT ci inducono a ritenere che proprio il mondo del lavoro e dell’impresa abbia risalito la china occupazionale di mezzo milione di unità (per la precisione 538.000), l’altra faccia della medaglia che si presenta immantinente è la classificazione di questa forza lavoro: sono quasi tutti contrattualizzati con un lavoro a termine da meno di cinque anni.

Ciò significa che siamo innanzi non ad una inversione di tendenza determinata dal diritto ad un posto fisso e garantito, bensì ad una precarietà che si diffonde e dilaga.

In mezzo a questo marasma antisociale, il governo non trova di meglio da fare se non investire venticinque miliardi dei fondi del PNRR nel grande affare dell’alta velocità ferroviaria, piuttosto che potenziare le reti esistenti e, soprattutto, quelle locali che necessiterebbero, al pari di tante altre infrastrutture, di una manutenzione adeguata e costante, al fine di evitare incidenti e disagi sempre più ricorrenti.

Ed ancora, in mezzo a questa disagevole condizione popolarmente diffusa, invece che dare ossigeno agli inoccupati, ai disoccupati e a coloro che cercano un lavoro e non lo trovano, l’esecutivo cancella il reddito di cittadinanza per gli “occupabili” da diciotto mensilità a sette e introduce un semestre di formazione obbligatorio, pena la decandenza completa del sussidio. Chi, poi, ha ottenuto il RDC dal gennaio scorso, dal prossimo agosto se lo potrà scordare.

Citando la ministra Calderone: «Un beneficiario con 160 ore di formazione mirata e orientata alle esigenze delle imprese, dopo 3-4 settimane può uscire dal sussidio».

Leggendo i dati ISTAT, spalmati su una ipotetica progressione, tenendo conto di tutte le eventualità possibili, quindi considerando un margine di errore non certo flebile, viene comunque da dire che, se fosse come la racconta la ministra, gli occupati dovrebbero crescere molto di più del mezzo milione a contratto a termine meno di cinque anni.

Viene altresì da affermare che, siccome i corsi di formazione non sono ancora partiti nella stragrande maggioranza delle regioni, tante persone perderanno il sussidio senza che gli sia stata data la possibilità di formarsi “secondo le esigenze delle imprese” (ovvio, mica secondo quelle del lavoratore…), facendosi così beffare due volte: senza reddito e senza lavoro al tempo stesso. Praticamente si ritroveranno nella condizione indigente di partenza.

Di certo sappiamo che nel PNRR sono previste le GOL (acronimo che sta per “Garanzia Occupabilità Lavoratori“), ossia dei fondi indirizzati al sostegno delle imprese per l’inserimento di nuova forza-lavoro nei circuiti produttivi. Se, però, il reddito di cittadinanza attuale, riformulato dal governo Meloni, dovesse essere dato prima della frequentazione dei corsi di formazione, il rischio per l’Italia è la perdita delle GOL diventerebbe automatica.

Insomma, un cortocircuito, un pasticcio che deve essere risolto in tempi brevi e rispettando delle clausole oltremodo molto più complesse di quelle appena accennate. Se il governo non riuscirà ad inserire nei progetti di occupabilità almeno tre milioni di beneficiari e, inoltre, almeno ottocentomila cittadini rientranti nei requisiti di formazione (entro il 2025) i quattro miliardi del PNRR a ciò destinati andranno letteralmente in fumo.

Il governo può, per il momento, fare buon viso a cattivo gioco: a patto che duri, l’esecutivo se ne preoccuperà a tempo debito, non certo con quella doverosa prevenzione sociale che dovrebbe invece mettere in essere fin da subito per garantire la stabilità dell’esecuzione del PNRR su questo versante. Contano di più le messe in sucurezza dei profitti, contravvenendo persino alle direttive europee, sfacciatamente, senza alcun pudore.

E’ il caso dei balneari e dei rimbrotti delle corti di giustizia lussemburghesi che infrazionano l’Italia e la mettono in guardia. La direttiva Bolkestein, del resto, non è nata ieri, ma la casta spiaggiiata della privatizzazione delle nostre coste ha goduto fino ad oggi o della non curanza o della protezione artefatta dei governi che si sono succeduti.

La debolezza sociale del Paese si rende ogni giorno più tragicamente evidente e diventa strutturale, connaturata ad un sistema economico (e politico) che alimenta un circuito chiuso di interessi, impermeabili alle esigenze popolari e sociali, che si rivolgono alla stabilità dei mercati e alla competitività extranazionale, continentale e globale al tempo stesso al passo con le catastrofi innaturali e disumane che pervadono questi frangenti.

La ricetta del governo è: proteggere i benestanti e i ricchi, far pagare la crisi multilivello ai meno abbienti e ai poveri. Alla fine, la sintesi, tristemente oggettiva, è soltanto questa. Non è smentibile. Almeno dai dati dell’ISTAT e dalle reprimende europee contro l’Italia, osservata speciale, già passata nel gruppo di Visegrad in quanto ad omofobia e transfobia.

Ed il peggio, c’è da starne certi, deve ancora arrivae

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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