Che fine ha fatto la GKN e la sua vertenza? Dopo manifestazioni nazionali, mobilitazioni, editoriali, promesse della politica ecc. tale lotta sembra uscita dal cono di luce dei media anche meno allineati. Eppure si cerca ancora di costruire una prospettiva che non sia la deindustrializzazione del sito per arricchire l’ennesimo fondo speculativo. In che modo? Ce lo racconta questo testo di Cristina Quintavalla (nota della Redazione).

Il Collettivo di fabbrica della GKN non ha mai nutrito illusioni sulle promesse di reindustrializzazione di fabbriche fallite o abbandonate dagli imprenditori. Aveva sotto gli occhi anni di operazioni fallite. Stesso copione: prendi i soldi e scappa. Multinazionali e/o fondi che hanno investito, hanno goduto di finanziamenti pubblici, hanno tagliato senza pietà manodopera, e poi se ne sono andati. Passaggi di proprietà successivi, promesse di reindustrializzare, impegni industriali non mantenuti, anni di logoranti ed estenuanti trattative per i lavoratori. Con le fabbriche in crisi gli stessi indotti sono spariti, migliaia di persone sono rimaste senza lavoro e interi territori si sono ritrovati dall’oggi al domani desertificati e impoveriti.

Le delocalizzazioni rappresentano al meglio il volto reale dell’odierno processo di finanziarizzazione, dove il profitto è assicurato attraverso il commercio di titoli finanziari gonfiati dalle aspettative di un minor costo del lavoro o di una maggiore liquidità, dovuta alla diminuzione di impegni in investimenti materiali immediati. Processo grave di progressiva liquidazione dell’industria italiana, a partire da quella di autoveicoli e componenti, che colpisce direttamente i circa 200mila operai dell’automotive.

Naturalmente lo sgretolamento del tessuto produttivo non investe solo la produzione di veicoli: sono oltre 100 i tavoli aperti al MISE, che riguardano la sorte di oltre 100.000 lavoratori.

Il Collettivo di fabbrica e il Gruppo di ricerca solidale hanno scritto una proposta di legge anti-delocalizzazioni e l’hanno portata in Parlamento, sostenendo la necessità di una pianificazione industriale, garantita da un diverso ruolo dello stato nella riorganizzazione del lavoro, nella riconversione industriale, nella salvaguardia dell’occupazione, sotto il controllo operaio.

Ma le istituzioni non hanno finora inteso svolgere alcuna funzione volta a favorire reali processi di reindustrializzazione e a frenare al contempo la speculazione di fondi e investitori stranieri a caccia di finanziamenti facili e agevolazioni fiscali.

Il Collettivo di fabbrica insieme col Gruppo di ricerca solidale aveva predisposto «un piano produttivo» autonomo, un polo pubblico per la mobilità sostenibile, fondato sull’intervento pubblico, che potesse essere riprodotto in altre crisi. Si trattava di una prospettiva in continuità con la produzione storica di GKN, in quanto orientata alla produzione di componenti meccaniche per sistemi di trasmissione di veicoli destinati al trasporto pubblico.

Da quel 9 luglio 2021, dopo 19 mesi di assemblea permanente volta ad impedire la delocalizzazione, lo svuotamento degli impianti, la procedura di liquidazione, ha preso avvio una estenuante via crucis, fatta di decine e decine di incontri, promesse, dichiarazioni incongruenti. Prima “Borgomeo era l’advisor di Gkn. Poi è diventato il compratore di Gkn. L’ha fatto con una serie di accordi riservati, sopra le nostre teste. Accordi che hanno probabilmente disallineato la proprietà giuridica dal possesso sostanziale. Se così fosse, la reindustrializzazione è stata minata sin dall’inizio e questi dieci mesi solo una farsa con cui logorarci. E’ lecito ormai ipotizzare che l’intera operazione sia avvenuta in intesa con Melrose e che l’attuale proprietà non sia e non sia stata altro che una “testa di legno” impegnata a concludere “dolcemente” il lavoro sporco del fondo finanziario”. Questa l’amara conclusione cui è giunto il Collettivo di fabbrica, dopo mesi di estenuanti, quanto inutili trattative. Non è mai stato presentato un piano industriale, né mai sono stati presentati al MISE i documenti per accedere all’accordo di sviluppo. Le istituzioni pubbliche -Stato e Regione- sono stati latitanti.

La mancanza di politiche pubbliche, i tavoli disertati, le menzogne, gli impegni della nuova proprietà non mantenuti hanno determinato un quadro di assedio insostenibile per i lavoratori, che rischiano di finire dentro un tritacarne dal copione tristemente noto. Da oltre 7 mesi gli stipendi non vengono pagati. L’ombra del fallimento si delinea prepotentemente. Resistere in quelle condizioni è impossibile.

Il piano originario è stato allora accantonato. Il Gruppo di ricerca solidale si è trasformato nel Gruppo reindustrializzazione e ha attratto nuove competenze. E’ stato costituito anche un gruppo di ricerca sulle imprese recuperate, sulle esperienze di recupero e autogestione. “Si sono così moltiplicate le idee, come quella della cargobike, che potrebbe servire per un e-commerce più sostenibile. Stiamo anche studiando le comunità energetiche, per alimentare la fabbrica convertita via energia solare e distribuire poi l’eccedente ad altri siti presenti sul territorio. Si tratta insomma di un continuo ripensamento della produzione sulla base della lotta operaia e dell’integrazione sociale e ambientale con il territorio.” (L.Feltrin)

Si sta delineando insomma un nuovo piano di riconversione industriale dal basso, alla luce del fallimento della “transizione ecologica dall’alto”, incentrato sulla mobilità sostenibile e le energie rinnovabili, che non utilizzino terre rare e non comportino problemi di smaltimento.

Tale piano è pensato in sinergia col territorio: nell’assemblea dello scorso ottobre l’intera piana è stata chiamata a partecipare alla creazione di un’Associazione di promozione sociale, la SOMS Insorgiamo, affiliata all’ Arci e alla Rete nazionale Fuori mercato, che riprende in modo esplicito i valori, già operanti nell’ottocento, di mutuo soccorso e di congiunzione delle lotte e di reciproco sostegno alle vertenze ed ai bisogni.

E’ stato lanciato un crowfunding, col sostegno dell’Arci, di BancaEtica, di FFF, destinato in un primo tempo a raccogliere piccole quote, che andranno a comporre il primo nucleo di capitale, per far fronte ai costi di apertura della nuova cooperativa e a coprire le prime quote sociali da versare per la sua definitiva costituzione giuridica. Successivamente si avvierà l’equity crowdfunding, volto a reperire soggetti investitori di dimensioni maggiori. Infine, avviata la produzione di pannelli, sarà il turno del cosiddetto product crowdfunding – le prime commesse vere e proprie, puntando a quel mondo di imprese recuperate e cooperative di produzione che troveranno nelle operaie e operai di Campi Bisenzio un poderoso alleato nella strada verso la giusta transizione” (Gabriellini). 

I lavoratori /lavoratrici GKN hanno giustamente rivendicato per sé e per l’intera classe il ruolo di classe dirigente; coerentemente col fatto che nelle loro forme di lotta difendono la fabbrica, che è dei produttori, propongono la prefigurazione di nuovi modi di produzione e di distribuzione, nuovi fini della essa, non fondata sullo sfruttamento dell’uomo e della natura.

Sanno di operare in una società dominata dalla concorrenza spietata, conoscono il potere del mercato e sono consapevoli delle loro insidie.

Tentano il futuro: recuperare la loro fabbrica, fare di GKN un punto di riferimento per coloro che stanno perdendo il lavoro per fallimento o delocalizzazione, costruire una straordinaria cittadella di resistenza, in cui la fabbrica diventi luogo di comunità, aperta, alternativa, oppositiva, di formazione culturale, di spazio ricreativo.

La fabbrica recuperata dai lavoratori può diventare una cittadella, in cui e da cui progettare l’insorgenza.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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