Il Consiglio dei ministri del 1° maggio 2023 sarà ricordato come uno dei momenti più alti dell’odio verso i lavoratori e i poveri manifestato da questo Governo, ma anche come esito prevedibile di una politica economica che la cosiddetta opposizione (politica e sindacale) contesta in maniera ingenua e approssimativa, quando va bene, o esplicitamente da destra (!) quando va male.
Dal Consiglio dei ministri è uscito un provvedimento vergognoso, un mostro a tre teste che devono essere analizzate singolarmente ma sempre ricordando che sono tenute insieme dall’unico legame rappresentato dal fatto di essere un attacco al lavoro e ai lavoratori. Veniamo ai dettagli.
1) La prima testa del mostro è il provvedimento sul cuneo fiscale: per il periodo luglio-dicembre si prevede un ulteriore taglio alla parte contributiva del cuneo di quattro punti percentuali per i redditi fino a € 35.000 annui. Abbiamo già spiegato più volte perché la storiella che per rilanciare i salari occorra intervenire sul cuneo fiscale sia né più né meno che una farsa, e stavolta gli attori di questa triste recita sono stati non solo i ministri, ma anche le organizzazioni sindacali che erano state convocate il giorno prima dalla Meloni per illustrare il provvedimento (incontro in cui erano presenti solo la triplice confederale e il sindacato di destra UGL, mentre erano escluse tutte le sigle del sindacalismo conflittuale). A sentire i rappresentanti della triplice, il provvedimento sarebbe infatti in sé giusto (“è quello che noi chiedevamo da anni”, sono arrivati a dire…) e il suo unico limite sarebbe quello di essere temporaneo (la misura, come il taglio precedente in legge di bilancio, scade al 31 dicembre di quest’anno). È l’esito triste e prevedibile di una contestazione miope che dimentica di vedere l’altra faccia della medaglia, e cioè il fatto che questa misura sarà finanziata attraverso tagli alla spesa sociale, perfino quando questi tagli sono nello stesso provvedimento, come quello al reddito di cittadinanza (ci arriviamo fra un attimo).
Va dato atto al nemico di essere quantomeno molto più sincero, esplicito e con le idee chiare rispetto ai sindacati confederali complici di questo scempio: il Governo, nel Documento di Economia e Finanza (DEF), aveva ammesso candidamente che il taglio al cuneo fiscale serve a favorire la moderazione salariale (quindi a impedire che i salari aumentino). È tutto scritto nero su bianco nel DEF, basta leggere: il taglio del cuneo fiscale “…contribuirà alla moderazione della crescita salariale. Unitamente ad analoghe misure contenute nella legge di bilancio, questa decisione testimonia l’attenzione del Governo alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori e, al contempo, alla moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi”. Ma stavolta alcuni commentatori già fanno un passo in più; in un articolo sul Corriere della Sera del 1° maggio (riprendendo un concetto già espresso su La Voce) si svolge infatti il ragionamento che segue: questi continui tagli al cuneo fiscale, o meglio al cuneo contributivo, stanno determinando maggiori oneri a carico della fiscalità generale, e questo alla lunga è insostenibile; l’unico modo per renderlo fattibile nel medio periodo (perché anche l’autore non discute il fatto che il taglio sia in sé giusto) è allora quello di innalzare l’età pensionistica, in modo da “recuperare” i minori contributi versati che non devono essere più compensati dalla fiscalità generale. Sissignori, avete letto bene: mentre la Francia è giustamente paralizzata (e anche questo è curiosamente taciuto e fatto passare sottotraccia dai maggiori sindacati italiani) per contrastare una riforma che certo guarda al modello italiano, ma senza avere il coraggio di farla tanto sporca, da noi qualcuno pensa bene di alzare l’asticella ancora più in alto, usando proprio il grimaldello del taglio al cuneo!
La parte fiscale del provvedimento del primo maggio si completa poi con l’innalzamento della soglia per i fringe benefit, esclusivamente per i lavoratori dipendenti con figli a carico (nota di colore patriottica). Si tratta di somme riconosciute ai lavoratori a pura discrezione del datore di lavoro, e spesso neanche in moneta ma sotto forma di agevolazioni varie (buoni benzina, carte spesa, etc.); insomma ancora una volta un trucco per far passare l’idea di dare qualcosa ai lavoratori ma evitando di andare ad aumentare i salari.
2) La seconda testa del mostro del 1° maggio è, come già accennato, la cancellazione del reddito di cittadinanza, che sarà sostituito da due nuove misure: una forma di sostegno (massimo 480 euro) per le famiglie in situazione di difficoltà e nel cui nucleo familiare siano presenti minorenni, persone con disabilità o ultra 65-enni e, per i soggetti in condizione di povertà assoluta ma ritenuti “occupabili”, un assegno ancora inferiore (350 euro), subordinato alla frequenza di qualche mitico “corso di formazione”. Rispetto all’attuale (e già insufficiente) misura del reddito di cittadinanza è una vera e propria debacle: l’assegno viene ridotto a tutti, in particolare tagliando la parte riconosciuta quale sostegno per l’affitto; in un paese dove l’emergenza abitativa è ormai fuori controllo, infatti, è innalzata la soglia ISEE per essere considerati meritevoli di tale supporto. Viene inoltre inasprito il meccanismo implacabile per cui se benefici del sostegno sarai poi obbligato ad accettare anche la proposta di lavoro più infame, al costo, altrimenti, di perdere tutto. Infine, con assoluto sprezzo del ridicolo, la Ministra del Lavoro Calderone – ripetendo la favoletta che in Italia il lavoro c’è, ma manca l’incrocio fra domanda e offerta – ha promesso di risolvere la questione attraverso qualche app o piattaforma digitale che – a mo’ di agenzia per cuori solitari – farà finalmente incontrare le imprese desiderose di offrire sontuosi e ben remunerati impieghi con lavoratori un po’ pigri che non si prendono la briga di rispondere alle offerte di lavoro.
3) Lavoro (e veniamo alla terza testa del mostro) che sarà comunque probabilmente a tempo determinato: il Governo, infatti, in perfetta continuità con quanto già operato dal Governo Draghi, attenua ulteriormente i già timidi vincoli posti all’utilizzo di contratti a tempo determinato, che ora potrà essere imposto e prorogato (fino a 24 mesi) senza neanche prendersi la briga di spiegare perché. Il provvedimento, infatti, amplia e rende molto più generiche le causali in base alle quali ad una impresa è permesso procedere con assunzioni a termine, rendendo in questo modo ancora più semplice disfarsi dei lavoratori (o semplicemente ruotarli per aumentare la loro ricattabilità). Anche in questo caso, la realtà per il Governo è solo un fastidioso accidente: i dati infatti dimostrano che i contratti a tempo determinato sono spaventosamente diffusi in Italia, anche grazie alle varie “riforme” del mercato del lavoro messe in atto da tutti i Governi negli ultimi 30 anni (a partire dal pacchetto Treu targato centro-sinistra). Gli ultimi dati ISTAT certificano la presenza di circa 3 milioni di occupati con contratto a tempo determinato, pari al 16,2% dei lavoratori dipendenti. Un numero confermato anche dall’Osservatorio sul precariato dell’INPS che parla di 2 milioni e 950 mila precari in Italia a febbraio 2023.
Le misure del Governo sono dunque un attacco al lavoro dipendente e alle persone più fragili, oltre che l’ennesimo assist alle imprese per garantire i loro profitti assicurando che non debbano aumentare gli stipendi. Il Governo ha scelto provocatoriamente la data del 1° maggio per sferrare questo attacco al lavoro e ai lavoratori, ma maggio è un mese lungo; occorre costruire, da qui al 26 maggio, una opposizione reale a questa politica economica che parta dal rimettere al centro, per davvero, il lavoro e il salario
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