Macron ha varcato tre linee rosse che i precedenti presidenti di destra, Chirac e Sarkozy, non avevano osato oltrepassare: la manifesta volontà popolare, al di li là dei numeri parlamentari, la limitazione della violenza poliziesca entro i limiti della salvaguardia della vita dei manifestanti, l’attacco alle libertà personali e alle differenze in nome di un’ideologia “repubblicana” che è solo una maschera dell’ordine poliziesco neoconservatore

Nelle ultime settimane Emmanuel Macron e i suoi ministri hanno scientemente oltrepassato tre linee rosse davanti alle quali i loro predecessori si erano fermati. In primo luogo hanno imposto una legge che il Parlamento non aveva votato e la cui impopolarità risultava evidente. Poi hanno dato il loro appoggio incondizionato alle forme più violente di repressione poliziesca. Infine, in risposta alle critiche della Ligue des Droits de l’Homme, hanno fatto intendere che le associazioni di interesse pubblico potevano vedersi tagliare le sovvenzioni se avessero espresso delle riserve sull’azione del governo.

Si capisce che questi tre oltrepassamenti fanno sistema e ci permettono di vedere con molta chiarezza la natura del potere che ci governa. Il primo ha sicuramente colpito per il contrasto con gli atteggiamenti adottati da Jacques Chirac durante gli scioperi del 1995 e dal suo ministro Nicolas Sarkozy durante il movimento contro il contratto per l’impiego giovanile nel 2006. Nessuno dei due aveva una fibra sociale molto spiccata. Chirac era stato eletto con un programma di riconquista della destra e Sarkozy avrebbe dichiarato l’anno successivo di voler mettere la Francia al lavoro. Tuttavia hanno entrambi ritenuto che non fosse possibile approvare una legge che modificasse il mondo del lavoro e che fosse massicciamente respinta dai diretti interessati. Da politici di vecchio stampo, si sentivano ancora in debito con un soggetto chiamato popolo: un soggetto vivo che non si limitava al conteggio elettorale e del quale non poteva essere ignorata la voce espressa tramite l’azione sindacale, i movimenti di massa nelle strade e le reazioni dell’opinione pubblica. Nel 2006, così, la legge approvata dal Parlamento non venne poi promulgata.

Si capisce che Emmanuel Macron non condivide questo genere di ingenuità, non crede più che oltre il conteggio delle schede elettorali esista ancora qualcosa come il popolo di cui preoccuparsi. Con quella che all’epoca si sarebbe potuta considerare un’esagerazione, Marx diceva che gli Stati e i loro dirigenti non sono altro che i curatori degli affari del capitalismo internazionale. Emmanuel Macron è forse il primo capo di Stato del nostro Paese a comprovare esattamente questa diagnosi, deciso come è ad applicare fino in fondo il programma di cui si reputa responsabile: la controrivoluzione neoconservatrice che da Margaret Thatcher in poi mira a distruggere tutte le vestigia di quello che un tempo veniva chiamato Stato sociale, ma anche tutte le forme di contropotere derivanti dal mondo del lavoro, per garantire il trionfo di un capitalismo assoluto che assoggetta tutte le forme di vita sociale alla sola legge del mercato.

Questa offensiva si è data un nome, quello di neoliberismo, che ha alimentato ogni sorta di confusione e di compiacimento. Secondo i suoi promotori, ma anche secondo molti di coloro che credono di contrastarlo, il liberismo consiste semplicemente nell’applicazione della legge economica del laissez-faire laissez-passer e il suo correlato è la limitazione dei poteri dello Stato, che d’ora in avanti si accontenterebbe di semplici compiti gestionali rinunciando a qualunque intervento vincolante nella vita pubblica. Alcuni spiriti che si presumono forti aggiungono che questa libertà di circolazione dei beni e il liberalismo di uno Stato facilitatore piuttosto che repressivo si accorderebbero armoniosamente con i costumi e lo stato d’animo degli individui, ormai preoccupati soltanto delle loro libertà individuali.

Tuttavia la favola del liberalismo permissivo è stata smentita alle origini dalle cariche della polizia a cavallo lanciate nel 1984 da Margaret Thatcher nella battaglia di Orgreave, una battaglia destinata non solo a imporre la chiusura delle miniere ma a dimostrare quanto i rappresentanti sindacali dei lavoratori non avessero più voce in capitolo nell’organizzazione economica del Paese. No alternative vuole anche dire zitti e muti! Il programma per l’imposizione del capitalismo assoluto non è affatto liberale, ma un programma bellicoso di distruzione di tutto ciò che ostacola la legge del profitto: fabbriche, organizzazioni sindacali, leggi sociali, tradizioni di lotta operaia e democratica. Lo Stato ridotto alla sua espressione più semplice non è lo Stato manageriale, ma quello poliziesco.

Il caso di Macron e del suo governo è in questo senso esemplare. Non ha nulla da discutere né con l’opposizione parlamentare, né con i sindacati, né con i milioni di manifestanti, non gli importa la disapprovazione dell’opinione pubblica. Gli basta essere obbedito e l’unica forza che gli sembra indispensabile al raggiungimento di questo obiettivo, l’unica su cui il governo può fare affidamento, è quella che ha il preciso compito di costringere all’obbedienza, vale a dire la forza di polizia.

Da qui l’oltrepassamento della seconda linea rossa. I governi di destra che hanno preceduto Emmanuel Macron avevano tacitamente o esplicitamente rispettato due regole: la prima era che la repressione poliziesca delle manifestazioni non doveva uccidere; l’altra era che il governo aveva torto quando la volontà di imporre una politica provocava la morte di chi vi si opponeva. Questa era la doppia regola a cui si sottomise il governo di Jacques Chirac nel 1986 dopo l’uccisione di Malik Oussekine, picchiato a morte da una brigata volante della polizia durante le manifestazioni contro la legge che introduceva dei criteri selettivi nell’istruzione superiore. Non solo le brigate volanti furono sciolte ma la legge stessa fu ritirata. Questa dottrina appartiene chiaramente al passato. Le brigate volanti, ricostituite per reprimere la rivolta dei Gilets jaunes, sono state risolutamente utilizzate per reprimere i manifestanti a Parigi come a Sainte- Soline, dove una delle vittime è ancora tra la vita e la morte. E soprattutto, tutte le dichiarazioni delle autorità concordano sul fatto che non esiste più una linea rossa: lungi dall’essere la prova degli eccessi a cui porta l’accanimento nella difesa di una riforma impopolare, le azioni muscolari della BRAV-M [Brigades de répression des actions violentes motorisées, ndr] sono la legittima difesa dell’ordine repubblicano, cioè dell’ordine governativo che vuole imporre a tutti i costi questa riforma. E chi partecipa a manifestazioni che rischiano sempre di degenerare rimane il solo responsabile dei colpi che può ricevere.

Questo è anche il motivo per cui non è più accettabile alcuna critica all’operato delle forze di polizia, lo stesso per il quale il nostro governo ha ritenuto opportuno superare una terza linea rossa prendendosela con un’associazione, la Ligue des Droits de l’Homme, che i suoi predecessori si erano generalmente guardati bene dall’attaccare frontalmente, perché il suo stesso nome simboleggia la difesa dei principi dello Stato di diritto ritenuti vincolanti sia dai governi di destra che da quelli di sinistra. Gli osservatori della Ligue si erano infatti permessi di esprimere delle riserve sugli ostacoli frapposti dalle forze dell’ordine all’evacuazione dei feriti; tanto è bastato al nostro Ministro degli Interni per mettere in discussione il diritto di questa associazione a ricevere sovvenzioni pubbliche.

Ma non è semplicemente la reazione del capo della polizia alla chiamata in causa dei suoi subordinati, perché il nostro primo e molto socialista ministro ha messo i puntini sulle i: la reazione della Ligue alla portata della repressione poliziesca a Sainte-Soline conferma l’atteggiamento antirepubblicano che l’ha resa complice dell’islamismo radicale. Dopo aver messo in dubbio la validità di diverse leggi restrittive della libertà individuale, che vietavano alcuni tipi di abbigliamento o proibivano di coprirsi il volto nei luoghi pubblici, la Ligue si era preoccupata per le disposizioni della legge «che consolida i principi della Repubblica», di fatto limitando la libertà di associazione. Insomma, il suo peccato e il peccato di tutti coloro che si chiedono se la nostra polizia rispetti i diritti umani è quello di non essere buoni repubblicani.

Sarebbe sbagliato considerare i commenti di Elisabeth Borne come un argomento di circostanza. Sono il risultato logico della cosiddetta filosofia repubblicana, che è la versione intellettuale della rivoluzione neoconservatrice della quale il suo governo applica il programma economico. I filosofi “repubblicani” ci hanno subito avvertito che i diritti umani, un tempo celebrati in nome della lotta al totalitarismo, non erano poi così buoni. In realtà servivano la causa del nemico che minacciava il “legame sociale”, l’individualismo democratico di massa che dissolveva i grandi valori collettivi in nome del particolarismo. L’appello all’universalismo repubblicano contro i diritti abusivi degli individui ha trovato rapidamente il suo bersaglio preferito: i francesi di fede musulmana e in particolare quelle giovani liceali che rivendicavano il diritto a tenere il capo coperto nelle scuole. Contro di loro è stato riesumato un vecchio valore repubblicano, la laicità. Un tempo con questa parola si intendeva dire che lo Stato non doveva sovvenzionare l’educazione religiosa, ma ora che di fatto la stava sovvenzionando assume un significato completamente nuovo, cominciando a significare l’obbligo di avere il capo scoperto, un principio ugualmente disatteso dalle studentesse che indossavano il velo e dagli attivisti che indossavano cappucci, maschere o foulard durante le manifestazioni.

Nel frattempo un intellettuale repubblicano ha coniato il termine islamo-gauchisme per identificare la difesa dei diritti violati del popolo palestinese con il terrorismo islamista. Si è quindi imposto l’amalgama tra rivendicazione di diritti, radicalismo politico, estremismo religioso e terrorismo. Nel 2006, alcuni avrebbero voluto vietare contemporaneamente l’uso del velo e l’espressione di idee politiche nelle scuole. Nel 2010, il divieto di coprire il volto nello spazio pubblico ha permesso l’assimilazione della donna con il burqa al manifestante con il foulard e alla terrorista che sotto il velo nasconde le bombe.

Ma è ai ministri di Emmanuel Macron che va il merito di due progressi nell’amalgama “repubblicano”: la grande campagna contro l’islamo-gauchisme nelle università e la «legge per il rafforzamento dei principi della Repubblica» che, con il pretesto di combattere il terrorismo islamico, vincola l’autorizzazione delle associazioni a dei “contratti di impegno repubblicano” sufficientemente vaghi da potersi ritorcere contro di loro. È in questa prospettiva che vanno collocate le minacce rivolte alla Ligue des Droits de l’Homme. Qualcuno pensava che i rigori della disciplina “repubblicana” fossero riservati alle popolazioni musulmane di origine immigrata, oggi risulta chiaro quanto riguardano molto più estesamente tutti e tutte coloro che si oppongono all’ordine repubblicano così come lo concepiscono i nostri dirigenti. L’ideologia “repubblicana”, che alcuni cercano ancora di associare in modo acrobatico a valori universali, egualitari e femministi, non è altro che l’ideologia ufficiale dell’ordine poliziesco destinato a garantire il trionfo del capitalismo assoluto.

È giunto il momento di ricordare che in Francia esistono non una ma due tradizioni repubblicane. Nel 1848 c’erano già la repubblica tout court dei conservatori e la repubblica democratica e sociale, schiacciata dalla prima sulle barricate di giugno, esclusa dal voto con la legge elettorale del 1850 e poi nuovamente massacrata nel dicembre del 1851. Nel 1871 fu la Repubblica di Versailles ad annegare nel sangue la Repubblica operaia della Comune. Macron, i suoi ministri e i loro ideologi non covano certo intenzioni omicide, ma hanno chiaramente scelto la loro repubblica.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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