Antonio Semproni 

Unione Popolare ha depositato in Corte di Cassazione la legge di iniziativa popolare per un salario minimo di almeno 10 euro l’ora[1]. La proposta sembra, ad avviso di chi scrive, senz’altro da sostenere. Quel che mi chiedo è: si tratta soltanto di uno strumento di lotta di classe, cioè di una misura redistributiva dall’alto verso il basso, o anche di una misura di politica economica, che dunque contribuisce a plasmare il modello economico del Paese?

In un recente intervento su questa Rivista avevo detto che la fissazione di un salario minimo – in via indiretta, mediante programmi statali di lavoro garantito con un minimo salariale di base – potesse avere una qualche influenza rialzista sui prezzi.

Ma in che modo? Come l’aumento dei salari potrebbe esercitare un’influenza inflativa sui prezzi di beni e servizi?

Chiaro: aumentando la loro domanda. Ma ciò vale per qualunque bene e servizio?

La classe salariata spende il proprio reddito principalmente in beni e servizi di prima necessità: saranno dunque questi a apprezzarsi. Però non per molto. Vediamo perché.

Le imprese specializzate nella produzione di beni e servizi di prima necessità saranno compensate dell’aumento dei salari dall’aumento dei prezzi di mercato dei loro prodotti e dunque dei loro ricavi. In queste imprese si registrerà un aumento della redditività, almeno relativo.

Parlo di “aumento relativo della redditività” perché lo scenario sarà ben diverso per quelle imprese produttrici di beni e servizi che non sono l’obiettivo primario della domanda delle classi salariate: mi riferisco a beni e servizi di lusso. Le imprese del lusso risentirebbero, a causa dell’aumento dei salari, di un crollo della redditività. A poco varrebbe per esse aumentare i prezzi, giacché la domanda dei loro beni e servizi, che non ha ricevuto stimoli dall’aumento dei salari, rischierebbe di diminuire.

Dunque, per via della maggiore redditività delle imprese produttrici di beni e servizi di prima necessità, il capitale si sposterebbe – trascinando con sé il lavoro – dai settori del lusso a quelli dei beni di prima necessità. In una certa misura si verificherebbe una riconversione del sistema produttivo del Paese (questo dato per primo mi induce a ritenere, nel rispondere alla domanda iniziale, che la fissazione di un salario minimo costituisca anche una misura di politica economica). L’aumento dell’offerta di beni e servizi di prima necessità compenserebbe così quello della domanda degli stessi, comportando un abbassamento dei prezzi: ecco che l’effetto inflazionistico dato dall’aumento dei salari si annullerebbe. L’aumento della domanda, per dirla con Marx [Salario, prezzo e profitto, 1865], “provoca un aumento temporaneo dei prezzi di mercato, al quale segue un aumento dell’offerta; il che provoca di nuovo una caduta dei prezzi al loro livello di prima e in molti casi anche al di sotto del loro livello di prima”.

La fissazione di un salario minimo legale sembra una misura, ancor prima che redistributiva, di politica economica, in quanto incidente sul rapporto tra domanda e offerta: provocherà l’aumento della domanda di beni e servizi di prima necessità e al contempo la diminuzione della domanda di quelli di lusso, con evidenti riflessi sugli obiettivi della produzione e cioè sul lato dell’offerta.

Si capisce subito come l’accresciuto potere di acquisto delle classi salariate, dato dall’aumento dei salari a parità dei prezzi dei beni e servizi di prima necessità, permetterà a esse di acquistare beni e servizi di prima necessità prodotti nel Paese, diminuendo sensibilmente l’importazione degli stessi beni e servizi da Paesi stranieri a basso costo del lavoro: ecco che la fissazione di un salario minimo legale ha riflessi anche sulla bilancia dei pagamenti.

È dunque riduttivo qualificare la fissazione di un salario minimo solo come una misura redistributiva; essa è infatti anche uno strumento di politica economica. Chi dibatta intorno alla sua introduzione non solo dovrebbe rispondere all’ineludibile domanda se sia giusto rimettere alla contrattazione tra una parte forte (il capitalista) e una parte debole (il lavoratore) la determinazione di un bene, cioè il salario, cui sono consustanziali attributi fissati in Costituzione; dovrebbe anche domandarsi se aspira a un Paese dove i beni di prima necessità sono importati da Paesi stranieri a basso costo del lavoro o in un Paese dove chi vive del proprio lavoro possa acquistare i beni prodotti da lui (o dalla classe cui egli appartiene).

Questa doppia valenza del salario minimo impone di perseguire fino in fondo la sua fissazione. Senza chiaramente perdere di vista misure eminentemente redistributive, come l’imposta patrimoniale.


[1] https://poterealpopolo.org/salario-minimo-almeno-10/

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Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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