Dopo essere stato a lungo ingannato, il popolo italiano ha compreso che la politica nazionale conta poco di fronte all’occupazione militare statunitense e alle catene economiche targate UE, come dimostra la sempre più scarsa partecipazione elettorale.
Mentre scriviamo, il governo di Giorgia Meloni ha compiuto 256 giorni dal suo insediamento, facendo già meglio, ad esempio, del primo governo di Silvio Berlusconi, e puntando al traguardo dei 300 giorni raggiunto dal governo di Enrico Letta. Dei 68 governi che si sono succeduti nella storia repubblicana, solo 36 – ovvero meno della metà – hanno superato lo scoglio dell’anno di durata, dimostrando la ben nota instabilità della politica nazionale.
Al momento non sappiamo ancora se il governo Meloni riuscirà a superare questo scoglio, ma quello che possiamo dire è che la sua stessa esistenza risulta completamente inutile, come del resto lo sarebbe quella di un qualsiasi altro governo italiano guidato da una qualsiasi altra coalizione di partiti borghesi. Coloro che si accalorano eccessivamente per le vicissitudini della politica nazionale, continuano a dimenticare di vivere in un Paese a sovranità limitata e occupato militarmente da quasi ottant’anni.
Sebbene i sedicenti sovranisti siano al governo, la riconquista della sovranità nazionale appare ancora come un miraggio, di fronte alle limitazioni imposte dall’occupazione militare statunitense, che prende il nome di NATO, una fantomatica alleanza tra partner impari, e le ben note catene poste all’economia nazionale dai diktat dei tecnocrati di Bruxelles. Al governo italiano non resta dunque che fare bieca retorica su questioni di second’ordine, come quella degli sbarchi, palesando oltretutto il proprio completo fallimento, visto che gli arrivi – e le morti in mare – non fanno altro che aumentare nonostante le promesse della destra xenofoba al potere.
Abbiamo già sottolineato in altre occasioni come gli italiani siano ormai stanchi di questa situazione. Il popolo è stato a lungo ingannato dal simulacro di indipendenza che veniva concesso al Paese, mascherando la situazione di vassallaggio coatto alla quale è sottoposto dal 1945, anno in cui all’occupazione dei nazisti tedeschi si sostituì quella degli imperialisti statunitensi. Una serie di fattori, come la presenza di una classe politica decisamente più capace di quella odierna e l’azione politica efficace di un partito di vera opposizione come il PCI, convinsero gli italiani di contare qualcosa nel corso della Prima Repubblica, e di riflesso anche nei primi vent’anni della Seconda Repubblica.
La crisi economica del 2008-2009 ha cominciato ad aprire gli occhi ad una parte del popolo italiano, che ha iniziato ad individuare, seppur senza solide fondamenta teoriche, le contraddizioni insite nel sistema capitalista, ed in particolare nell’inganno della moneta unica, utilizzata come strumento di controllo nei confronti dei Paesi che vi avevano malauguratamente aderito. La percezione di un’ingiustizia di fondo, strutturale, è poi andata allargandosi fino ai giorni nostri, in cui ormai la maggioranza degli italiani rifiuta totalmente il gioco politico nazionale, avendone riconosciuto l’inutilità e l’inganno.
Che significato ha continuare a proporre elezioni sedicenti democratiche alle quali partecipa oramai meno della metà dei cittadini? L’ultimo esempio lo abbiamo avuto solo pochi giorni fa in Molise, con le elezioni regionali che hanno visto la partecipazione di appena il 47,95% degli aventi diritto, ricalcando i numeri delle precedenti elezioni regionali e locali (37,2% nel Lazio, 41,61% in Lombardia, 45,26% in Friuli-Venezia Giulia e poco più del 50% alle storicamente sentitissime elezioni comunali). Il centro-destra continua a festeggiare vittorie di Pirro, dimenticando che Francesco Roberti, nuovo presidente della Regione Molise, ha ottenuto sì oltre il 62% dei voti validi, ma di fatto gode del sostegno di meno del 29% della popolazione regionale.
Le classi popolari, in particolare, hanno ben compreso che, per dirla come l’uomo della strada, “tanto non cambia niente”, ovvero che il loro voto non incide in nessun modo sulla propria condizione materiale e sulla risoluzione delle preoccupazioni della loro vita quotidiana. Tanto il centro-destra quanto il centro-sinistra hanno come classe di riferimento quella della borghesia capitalista, con l’unica differenza che, almeno in apparenza, il centro-destra coltiva gli interessi della borghesia nazionale tradizionale, mentre il centro-sinistra targato PD è totalmente genuflesso di fronte agli interessi del grande capitale transnazionale (sebbene, a conti fatti, anche il centro-destra lo sia).
Le classi lavoratrici avrebbero dunque bisogno di un nuovo partito d’avanguardia che guidi la loro azione verso un nuovo sistema politico, economico e sociale che rifletta gli interessi dei subalterni, e liberi il Paese tanto dall’occupazione militare statunitense quanto dalle catene economiche targate UE. Tuttavia, nell’attuale constesto storico, una tale forza politica non sembra sorgere all’orizzonte, dal momento in cui la sinistra comunista continua nel suo gioco di frammentazione e di inutili accuse reciproche di revisionismo e di dogmatismo.
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Giulio Chinappi – World Politics Blog