In seguito all’incarico ricevuto dal governo, il CNEL ha elaborato e trasmesso all’Esecutivo la valutazione finale sul lavoro povero e sull’eventuale introduzione del “salario minimo legale”, che è stata infine bocciata. Giovedì, in conferenza stampa, il presidente dell’organo Renato Brunetta ne ha spiegato il contenuto, asserendo che una soglia minima di compenso stabilita per legge «non risolverebbe» la problematica della povertà lavorativa, per fronteggiare la quale occorrerebbe invece rafforzare la contrattazione collettiva, ovvero il rapporto tra sigle sindacali e associazioni dei datori di lavoro. Il documento è passato con 39 voti a favore, 15 no e 8 astenuti, manifestando dunque una forte spaccatura interna. A esprimersi contrariamente sono stati i CGL, UIL e UBS. La decisione, su cui di fatto ha messo il marchio “politico” un ex forzista come Brunetta, ha in realtà suscitato forti critiche per la sua “fumosità”, ma anche per il merito di quanto sancito.

Per la messa a punto del documento, il CNEL si è basato sulla Direttiva europea sul salario minimo, entrata in vigore lo scorso anno, che detta parametri e procedure che gli Stati membri dovrebbero seguire per garantire ai propri cittadini salari adeguati. Parte di questa norma è direttamente rivolta ai Paesi in cui il salario minimo è già stato introdotto, mentre la rimanente concerne la promozione della contrattazione collettiva nei Paesi in cui essa copre meno dell’80% dei lavoratori. Tra i principali motivi per cui il CNEL si è opposto alla prospettiva del salario minimo legale vi è la convinzione che la questione della povertà lavorativa non possa essere direttamente collegata ai “salari insufficienti”, costituendo invece “il risultato di un processo che va ben oltre il salario” e riguarda “i tempi di lavoro”, “la composizione familiare” e “l’azione redistributiva dello Stato”. L’istituto dice di auspicare, al contrario, “un ordinato e armonico sviluppo del sistema della contrattazione collettiva”, che “si avvicina al 100 per cento”: una percentuale “di gran lunga superiore all’80 per cento (parametro della direttiva)”. L’istituto ha inoltre minimizzato l’incidenza dei cosiddetti “contratti pirata”, che, se si escludono i lavoratori del settore agricolo e i collaboratori domestici, rappresenterebbero solo lo 0,4% dei dipendenti del settore privato. Il CNEL ha, insomma, avallato pienamente le tesi della maggioranza, tradizionalmente ostile al salario minimo.

Le perplessità sui contenuti del documento, però, sono numerose. In primis occorre ricordare che, quando il CNEL afferma che la contrattazione collettiva è già superiore alla soglia di salario minimo, fa riferimento a paghe medie che, aderendo ai parametri europei, sulla base dei dati Istat del 2019 arrivano a 7,10 euro lordi all’ora. Una quota parecchio lontana dai 9 euro previsti nella proposta delle opposizioni, che, giusto per fare un esempio, si discosta di molto dai 13 euro della Germania. Appare, inoltre, profondamente irrazionale disquisire solo sulla base di una logica quantitativa: la proposta bocciata dal CNEL avrebbe infatti inaugurato “la sperimentazione della tariffa retributiva minima” a partire dai settori più critici. Quelli, per intenderci, in cui si lavora percependo cifre estremamente più basse rispetto alla soglia di riferimento e senza l’inquadramento di un serio contratto collettivo.

Brunetta, nei suoi calcoli, inserisce peraltro nella categoria “pirata” soltanto i contratti firmati da sindacati che non hanno rappresentanza al CNEL, non tenendo conto degli accordi siglati da Cisal e Confsal, considerate organizzazioni rappresentative: 270 contratti che riguardano oltre 1,2 milioni di lavoratori. È il caso dei vigilanti e degli addetti alla guardiania, che hanno paghe da poco più di 5 euro all’ora e non godono di quattordicesima, con lo straordinario che gli viene pagato la metà. Il medesimo discorso vale per i contratti di Ugl, concernenti l’attività dei rider, il cui numero continua a crescere vertiginosamente di anno in anno. Secondo i dati Istat, i rapporti lavorativi con retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi l’ora sarebbero quasi un quinto del totale (precisamente il 18,2%, circa 3,6 milioni di rapporti), coinvolgendo circa 3 milioni di lavoratori. In audizione nella Commissione Lavoro alla Camera, lo scorso luglio Istat ha dichiarato infatti che il salario minimo a 9 euro l’ora produrrebbe un innalzamento della retribuzione per quei rapporti, che beneficerebbero di un incremento medio annuo di 804 euro.

C’è poi da considerare un’altra questione che appare rilevante, ovvero l’aumento dei costi per le casse statali che sarebbe prodotto dall’innalzamento dei salari minimi nelle aziende interessate a partecipare alle gare pubbliche. Basti pensare che i 126mila addetti delle imprese artigiane di pulizia guadagnano 8,1 euro l’ora, i 300mila delle cooperative del settore sanitario e i 300mila addetti ai multiservizi 8,8 euro l’ora. I 100mila addetti alla vigilanza, dopo la firma del contratto di Cgil, Cisl e Uil, guadagnano 5,3 euro l’ora nei servizi di sicurezza e 6,2 euro l’ora nella vigilanza. L’aumento di 1 euro all’ora solo per le categorie sopracitate produrrebbe, a livello salariale, un esborso aggiuntivo di circa 2 miliardi all’anno. Non potendo che impattare sulle finanze pubbliche.

Un’altra critica che viene mossa al “metodo Brunetta” è il fatto che il CNEL, per decidere, abbia utilizzato i dati Uniemens, che “falserebbero” la situazione reale per il fatto che, come ha spiegato il portavoce di Potere al Popolo Giuliano Granato, “nel momento in cui le imprese comunicano all’Inps i dati per pagare i contributi ai dipendenti, lo fanno sulla base del contratto di riferimento del settore e non di quello realmente applicato”. Esistono infatti fonti di ricerca che delineano percentuali molto diverse, come il rapporto Inapp del 2022, da cui emerge che, nel 2018, ad avere un contratto collettivo era l’88,9% dei dipendenti. Se però ci si focalizza su imprese che hanno meno di cinque dipendenti, la copertura scende al 77,8%. Se invece consideriamo il settore turistico la percentuale scende al 76%, per precipitare al 67,3% nella sanità privata.

Ad ogni modo, il CNEL – o almeno la sua maggioranza – ha scelto di sbarrare la strada al salario minimo. E il governo, per disinnescare l’azione politica delle opposizioni, non aspettava altro che incassare questo splendido assist, concedendosi il lusso di non mettere la faccia sul no a una misura che troverebbe d’accordo anche molti elettori di centro-destra. La premier Giorgia Meloni non ha perso tempo per portare acqua al suo mulino: «Il salario minimo istituito per legge non è lo strumento adatto per contrastare il lavoro povero e le basse retribuzioni: come sottolineato dal CNEL, occorre piuttosto programmare e realizzare, nell’ambito di un piano di azione pluriennale, una serie di misure e interventi organici», ha dichiarato dopo la pubblicazione del documento.

[di Stefano Baudino]

https://www.lindipendente.online/2023/10/16/il-governo-meloni-usa-il-cnel-per-affossare-il-salario-minimo/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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