Secondo Port Watch, piattaforma di analisi del commercio marittimo del Fondo Monetario Internazionale, il traffico di merci sul Mar Rosso è diminuito del 53% rispetto al 7 gennaio dello scorso anno. La causa di questo drastico calo nel commercio risiede nei sempre più insistenti attacchi da parte delle forze yemenite degli Houthi, gruppo ribelle che da dieci anni ha il controllo della capitale Sana’a. Sin dallo scoppio del conflitto inaugurato il 7 ottobre, il gruppo si è rivelato uno dei più attivi nel sostegno alla causa palestinese, lanciando, a partire da novembre, offensive contro le navi in viaggio verso e da Israele con lo scopo di bloccarne il traffico fino a quando Tel Aviv non interromperà il bombardamento in Palestina. I risultati sono evidenti, tanto che lo scorso 18 dicembre gli USA hanno promosso un’alleanza marittima internazionale sotto il nome di Prosperity Guardian, volta a «rafforzare la sicurezza e la prosperità regionali». Questa però rischia di avere l’effetto opposto e di gettare benzina sul fuoco in una regione dalla stabilità precaria.
I dati condivisi da Port Watch riportano come da metà novembre, il traffico sul Mar Rosso, e in particolare attraverso il valico di Bab el Mandeb, è diminuito del 46%, mentre quello sul canale di Suez ha toccato numeri inferiori del 33,4%, anche se la riduzione più drastica ha iniziato a verificarsi a partire da dicembre. Quello del Mar Rosso, connettendo Asia, parte dell’Africa ed Europa, è uno dei traffici marittimi più attivi del mondo, tanto da ricoprire l’11% del traffico globale, corrispondente a circa 19.000 navi all’anno, ma a causa della minaccia houthi molte compagnie hanno interrotto completamente il commercio sulla tratta, mentre altre hanno cercato una scappatoia. L’alternativa al Mar Rosso, tuttavia, sarebbe quella di circumnavigare il continente africano da Sud e, per quanto questa rotta abbia visto un incremento pari al 33,2%, essa comporta, secondo l’agenzia di stampa EFE, ben dieci giorni in più di viaggio, che finirebbero per forza di cose a incrementare il prezzo delle merci. Tra i beni più colpiti, ci sarebbero nel particolare oggetti di uso quotidiano, produzioni di natura tessile, ma anche e soprattutto petrolio. È anche per questo motivo che gli USA hanno lanciato l’operazione Prosperity Guardian, da cui tuttavia dopo un iniziale (parvente) entusiasmo, si sono defilati numerosi Paesi: tra questi si annoverano la Francia, l’Italia, la Spagna (che in verità si era sin da subito mostrata contraria), e le Seychelles. L’operazione comunque ha iniziato a trarre i risultati che desiderava, e il 31 dicembre gli USA hanno distrutto tre imbarcazioni houthi.
In generale, le operazioni degli Houthi contro Israele sono iniziate il 31 ottobre, quando il gruppo terroristico ha abbattuto un velivolo cinese che transitava nel proprio territorio. In quest’occasione, il portavoce del gruppo Yahya Sare’e ha condiviso su X un post in cui mostrava piena solidarietà al popolo palestinese, sottolineando che gli attacchi non si sarebbero fermati fino a che Israele non avrebbe interrotto il bombardamento a Gaza. Le offensive sono andate via via intensificandosi, fino ad arrivare al 19 novembre, quando il gruppo terroristico ha preso il controllo di una nave cargo diretta verso Israele; in seguito, Sare’e ha ribadito che le operazioni non si sarebbero fermate se non assieme ai bombardamenti israeliani, avvertendo la comunità internazionale, che «se ciò che la preoccupa è la sicurezza della regione, essa dovrebbe, piuttosto che allargare il conflitto, mettere fine alle aggressioni di Israele nei confronti di Gaza». A partire da quel momento gli scontri sono sempre più aumentati, toccando il picco questo dicembre.
Gli Houthi sono finanziati e sostenuti dall’Iran, ma non si limitano a fare gli interessi di Teheran. Il movimento degli Houthi nasce nel 1992 in affiliazione al gruppo di Gioventù Credente sorto per promuovere la religione zaydista (uno dei tanti rami dell’Islam sciita) nello Yemen. In occasione dell’invasione dell’Iraq del 2003, nel gruppo iniziarono a sorgere sentimenti anti-statunitensi e anti-sionisti, che causarono duri confronti con l’allora Presidente filo-saudita Saleh e portarono alla morte del fondatore del gruppo Husayn al-Houthi, da cui viene il nome stesso dell’organizzazione. Gli Houthi presero col tempo sempre più piede e nel corso dell’ultimo decennio si affermarono sempre di più, arrivando a impossessarsi della capitale nel 2014. L’anno successivo l’Arabia Saudita creò un’alleanza contro il gruppo appoggiando i sostenitori dell’alleato deposto Saleh, mentre gli Houthi si videro affiancare invece dall’Iran, acerrimo nemico di Riyad. Gli scontri tra Houthi e Arabia Saudita sono continuati fino al 2022, ma l’alleanza che gli USA hanno lanciato contro di loro potrebbe destabilizzare nuovamente la situazione e portare a un rapido risorgere dei conflitti.
Gli interessi degli Houthi sono in primo luogo quelli di “mantenersi come attore in grado di negoziare alla pari con sauditi ed emiratini”, suoi rivali più prossimi per ragioni di natura geografica. Come sottolinea Limes, “la loro azione nel conflitto mediorientale del 7 ottobre serve per accreditarsi con Teheran e per mostrarsi forti con Riyad”, con cui le possibilità di escalation sono sempre vicine. Messe sotto la lente dell’immenso quadro complessivo in cui si trova la Penisola Arabica, le azioni degli Houthi sono molto più significative di quanto appaiano: se infatti dovesse davvero verificarsi un allargamento del conflitto, che viste le continue azioni di rappresaglia israeliane anche nei confronti di gruppi diversi da Hamas, pare sempre più vicino, le forze coinvolte toccherebbero l’intero Medio Oriente, in cui tutti i Paesi per un motivo o per un altro hanno i propri interessi.
[di Dario Lucisano]