Astraendoci per un attimo dal contesto reale, pensiamo a cosa dovrebbero fare le sette più grandi potenze del mondo. Innanzi a povertà, crisi ambientale, guerre, cataclismi, migrazioni economiche e dilagare di sentimenti di odio, razzismo, xenofobia, omofobia e antisemitismo, dovrebbero provare a risolvere queste piaghe moderne. E, per cominciare, dovrebbero farlo invertendo la rotta, capovolgendo quello che avviene con interventi che siano l’esatto opposto di quanto fatto fino ad ora.

Dovrebbero quindi, come ha detto molto bene il presidente brasiliano Lula, pensare a tassare i supericchi, prendere quei soldi e distribuirli per il contenimento tanto del disfacimento dell’ordine ecosistemico quanto per la diminuzione degli effetti del predonismo liberista sulle aree più disagiate e povere a tutto vantaggio di quelle più ricche del pianeta. Questo sarebbe il libro dei sogni, la vera utopia.

Adesso usciamo dal momento astratto e torniamo nella realtà. Il G7 non è niente di tutto questo perché è, insieme agli altri organismi di controllo del capitalismo mondiale, uno dei momenti di maggiore rigore nei confronti di tutto ciò che può intralciare i piani delle grandi economie occidentali entro cui vive una grande quantità di individui, ma che rappresentano comunque sempre una minoranza rispetto al resto del globo.

Il G7 è fisiognomicamente l’insieme dei tratti distintivi del voto più duro e spietato del liberismo, del bellicismo, di quel capitale moderno che è in una fase di incertezza dovuta al ritorno sulla scena di un multipolarismo che ha sconvolto i piani nord-atlantici di egemonizzazione economico-politico-militare sul pianeta. Non può venire nulla di apprezzabile dalla tre giorni pugliese dei sette grandi. Le dichiarazioni di intenti sono un imbellettamento di decisioni che portano avanti la guerra a tutto spiano contro la Russia.

Medvedev le spara spesso piuttosto grosse, ma non ha torto quando afferma che ad Est era in atto una vera e propria colonizzazione da parte dell’Occidente in quello che è da sempre considerato uno spazio di azione, di egemonia russa. Questo non dà il diritto a nessuna invasione da parte di uno Stato nei confronti di un altro Stato e, infatti, anche in questo preciso frangente si è sempre parlato e scritto di imperialismi a confronto e della guerra d’Ucraina come di un pretesto per giocare questo cinico risiko sulla pelle dei popoli e dei soldati.

Mentre Olaf Scholz siede al tavolo delle sessioni del G7 nel bellissimo castello Svevo di Brindisi, il suo ministro della difesa, Boris Pistorius (anch’egli membro della SPD) rinverdisce le gesta dei socialdemocratici di inizio Novecento aprendo ad un bellicismo che si fonda su nuovi crediti di guerra, su un riarmo costante e progressivo per la Germania, su un arruolamento di centinaia di migliaia di nuovi giovani tedeschi a cui arriverà presto un questionario per sondare la loro disponibilità a svolgere il servizio di leva.

Quello che si tace, ma che risulta piuttosto evidente, è il carattere obbligatorio che questa leva rischia di avere proprio grazie al pretesto di una minaccia russa nei confronti degli altri paesi europei, dopo la ipotizzabile vittoria in Ucraina. Secondo Pistorius, ma anche secondo Macron, che in quanto a toni interventisti contro la Russia non è secondo a nessuno, i piani di Putin prevederebbero l’attacco ai Paesi Baltici, alla Polonia e quindi la Germania.

Difficile poter fare previsioni. Ma questo scenario, almeno oggi, sembra davvero una enormità rispetto alle reali intenzioni di Mosca che, anche nelle dichiarazioni su un cessate il fuoco, proprio a detta del presidente russo, le condizioni per l’apertura di una trattaviva sarebbero il ritiro delle truppe ucraine dai quattro oblast invasi e l’esclusione dell’adesione all’Alleanza Atlantica.

Ciò comporterebbe, almeno guardando una carta dell’Europa, un bilanciamento da est ad ovest dell’attuale espansionismo della NATO che, ormai, tocca quasi tutto il confine russo occidentale: dalla Lapponia fino al Caucaso. Escludendo ovviamente la Bielorussia che, caso mai l’Alleanza dovesse includere l’Ucraina, si troverebbe a disegnare un cuneo dentro il territorio armato dall’Occidente o, per meglio dire, ne sarebbe circondata.

La tre giorni di discussione del G7, dunque, ha avuto tra gli altri temi all’ordine del giorno quello dell’invio di altri armamenti a Zelens’kyj per un totale di cinquanta miliardi di dollari ricavati dalla confisca dei beni russi. Un atto anche questo offensivo piuttosto che difensivo. La guerra, del resto, si gioca tragicamente e cinicamente anche così: con sanzioni, dazi, blocchi economici, oltre che con cavalli di Frisia, trincee, droni, missili a corta o lunga gittata, navi e, chiaramente, uomini e donne che muiono.

La riorganizzazione geopolitica occidentale passa anche per la partita europea dell’Ucraina. Le previsioni di economisti come Robert Gordon, citate da Thomas Piketty nel suo monumentale “Il capitale nel XXI secolo” (Bompiani, 2013, terza ristampa 2021), ci dicono che «…il ritmo della crescita della produzione pro capite nei paesi più avanzati, a cominciare dagli Stati Uniti, è destinato a rallentare, e potrebbe essere, per il periodo 2050-2100, inferiore allo 0,5%».

Il che, tradotto in parole più povere, significa che, se si osserva la storia capitalistica dalla prima macchina a vapore fino ad oggi, si noterà che mano a mano che l’innovazione realizza nuovi processi produttivi, li espande e stimola così una sempre maggiore globalizzazione tanto delle merci quanto delle capacità produttive delle stesse, parimenti il potenziale della crescita economica rallenta.

Quando i governi del G7 magnificano la tenuta del liberismo occidentale, mostrando un ottimismo davvero innaturale (letteralmente: contro la Natura con la enne maiuscola!), fanno male i conti nel credere e far credere che la crescita possa attestarsi, su un periodo di lungo termine, con tutte le problematiche impellenti che bussano alle porte soprattutto dell’Europa, intorno al due o due e mezzo percento. Tuttavia – ammette Piketty – proprio perché le variabili sono così tante, a volte interdipendenti e indefinibili, il margine di errore è piuttosto alto.

Le previsioni, quindi, sono più un pensiero quasi magico di una analisi anche latamente macro-economica. Però la tendenza è evidente. Fanno a bene a preoccuparsi al G7 delle ricadute eco-sociali delle trasformazioni che si vedranno nei prossimi anni. Il cosiddetto “Piano Mattei” per l’Africa è una ennesima intromissione economica della ricca Europa nella povertà più consolidata, nelle guerre dimenticate. Il partenariato che si sventola come una grande conquista di solidarietà, altro non è se non una elemosina.

Parliamo di cifre? Un miliardo e settecento milioni di euro all’anno per investimenti che sono già ampiamente ripagati dal lavoro dei migranti in Italia: le loro rimesse alle famiglia rimaste nei paesi natii sono circa cinque miliardi. Per quello che ci danno e per quanto li sfruttiamo qui, siamo noi ad essere in debito con loro. Li ripaghiamo con una inezia. In circa vent’anni queste cifre si sono esponenzializzate: oltre ottocento miliardi.

Il successo di Giorgia Meloni, quindi, è appena il tre percento di quello che i migranti producono e fanno circolare dall’Europa all’Africa. Loro, con tutte le vessazioni che subiscono qui, con tutta l’ostilità che piove loro addosso da una buona parte degli italiani, rimandano al loro continente cento, duecento, trecento volte tanto di quello che il governo italiano invia spacciando il tutto per grande generosità e solidarietà internazionale.

I paesi che beneficeranno dei miliardi del piano sono stati scelti ovviamente con cura: Egitto, Tunisia, Etiopia, Kenya, Mozambico, Costa d’Avorio, Algeria, Marocco, Repubblica del Congo. Noi sosteniamo chi può renderci indipendente dal gas russo. Noi sosteniamo chi produce caffé e interessa direttamente quindi la filiera italiana. Partner sono, infatti, Lavazza, Illy e Borbone. Siccome ci si mette quella crisi climatica che i fratelli e le sorelle d’Italia negano spesso e volentieri, così come certi ambienti del leghismo, l’America Latina costa sempre di più in quanto ad esportazioni. Meglio l’Africa.

In sostanza, noi con una mano diamo e con l’altra prendiamo più di quello che facciamo credere di offrire generosamente. Fa tutto parte del gioco delle parti di un multipolarismo in cui la Russia, la Cina, l’India, l’Iran e gli altri paesi dei BRICS rappresentano una alternanza nel dominio mondiale e, quindi, minacciano Stati Uniti ed Europa di sostituirsi a loro nel traino dell’economia globale. Tutto il resto non è noia, ma la solita trafila di istituzionalismi che obbediscono a questo regime moderno del capitale.

Quasi tre miliardi di salariati soffrono le sempre più dire restrizioni economiche nei loro paesi, con paghe che diminuiscono, con livelli di sopravvivenza sempre più inaccettabili, affinché una sola parte del pianeta possa vivere in una condizione, se non proprio di agio, quanto meno differente dalla miseria e dallo sfruttamento quasi schiavistico.

Le scelte politiche del G7, come degli altri raduni dei grandi della Terra, sono scelte essenzialmente economiche e finanziarie. Queste direzioni, prese dai conglomerati di paesi che condividono una direzione guida della globalizzazione dei mercati e della produzione, sono state nel recente passato, ma pure anche più indietro nel tempo, foriere di pericolose diseguaglianze che, a loro volta, hanno creato i presupposti per cortocircuiti tra conservatorismo autoritario e protezionismo nazionalista.

Il contrario di quello che oggi i potenti del G7 vorrebbero mostarci: pur nelle differenze una armonia di intenti per il bene planetario. Nulla di più lontano dalla realtà delle catastrofi che invece affligono interi popoli, devastano regioni e non migliorano le condizioni sempre più innaturali di sovvertimento dell’ecosistema nel nome di una produzione massiva che sfrutta tutto e tutti: dalla terra al mare, dagli esseri umani agli animali.

Per cambiare proprio rotta occorrerebbe ridurre il debito pubblico degli Stati più poveri, creare una imposta sul capitale dal carattere eccezionale tesa a ridurre queste diseguaglianze enormi. La scelta, se si esclude questa soluzione riformista, è fra più inflazione e più austerità. Ma la domanda rimane e pesa, se non sulle loro, almeno sulle nostre coscienze: perché a pagare devono continuare ad essere miliardi di individui mentre poche migliaia se la spassano alle loro spalle?

La risposta è facile e complicata al tempo stesso: perché il capitalismo funziona così, e peggio ancora la sua torsione liberista. Le guerre che divampano, da quelle per procura a quelle genocidiarie, sono l’estremo tentativo, se volete anche disperato, di stabilizzare un disequilibrio che non accenna a diminuire e che porterà il sistema al collasso. Un giorno. Non oggi. A meno che, se non lasciamo fare alla Natura, non si sia noi a rovesciare queste sorti.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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