La morte di Satnam Singh dovrebbe far riflettere su cos’è diventato il lavoro agricolo e sulle responsabilità di ciascuno di noi © Franco Lo/iStockphotos
Andando oltre l’indignazione del momento, la morte di Satnam Singh dovrebbe farci mettere in discussione anche il nostro ruolo di consumatori
Daniele Calamita
Quanto avvenuto nei giorni scorsi a Latina con la morte di Satnam Singh, lavoratore di organi indiane, dovrebbe farci riflettere. Al netto della disumanità di un datore di lavoro che dovrebbe essere considerato un becero padrone, l’accaduto dovrebbe spingerci ad andare oltre l’indignazione del momento. E, provando per un attimo a superare il macabro e il disgusto, farci riflettere su cosa è diventato oggi il lavoro. Con alcune considerazioni voglio provare a tracciare questo cambiamento che, da concettuale, ha tramutato anche la forma e la sostanza giornaliera di questa attività.
Se il lavoro diventa una voce di costo da tagliare il più possibile
Negli anni il concetto di lavoro è mutato profondamente. Senza voler entrare nella declinazione delle teorie economiche sul tema, voglio sottolineare come in passato il lavoro fosse considerato come uno degli elementi fondamentali per ottenere una produzione, mentre oggi è considerato un fattore produttivo rientrante nella voce di costo, ossia parificato al trattore e alla zappa. Quindi, una voce su cui fare economia per massimizzare il profitto.
Da questa prima considerazione emerge che un’azienda tende costantemente a ridurre il costo del lavoro. Da qui la creatività illegale la fa da padrone a discapito dell’etica, motivo per cui la sicurezza in agricoltura è prossima allo zero; dilaga il lavoro nero e grigio; il sottosalario e la paga di piazza diventano la norma (a discapito della contrattazione collettiva) e quindi paghe di 3-4 euro l’ora in determinati luoghi diventano usuali.
Va anche declinato un altro concetto che di per sé dà una dimensione specifica. Il concetto è quello di mercato del lavoro, ossia come ossimoro il lavoro che sottostà alle logiche del mercato domanda-offerta, il lavoro trattato come una merce, come un pomodoro o come un ortaggio qualsiasi. Quindi più lavoratori ci sono (più braccia, più schiavi) a parità di aziende (l’estensione territoriale è statica), minore sarà il potere contrattuale del singolo lavoratore e maggiore sarà quello dell’azienda che, in questo caso, determina la paga di piazza. Infischiandosene del fatto che esista o meno un contratto (nazionale e provinciale) e facendo leva sullo status di bisogno del singolo. Azione che poi si spalma sulla generalità dei lavoratori, adducendo temi del tipo «se non vieni tu, ne trovo altri cento».
Le responsabilità dei consumatori nell’alimentare il mercato dello sfruttamento
Questa condizione, o meglio questa deformazione, non riguarda solo il comparto agricolo ma sta diventando sempre più generale. Ed ecco che il concetto di mercato del lavoro si trasforma in mercato dello sfruttamento e che, come collettività, ci svegliamo dal torpore solo quando avvengono eventi come quello che ha colpito il povero Satnam Singh. Un lavoratore come tanti (troppi) che esce di casa al mattino con la speranza di portare a casa qualche euro per sopravvivere e che non rientrerà mai più perché, per un padrone o per il caporale, la sua vita non vale nulla. La sua dignità (in vita e in morte) vale quanto la zappa: una volta rotta, la si butta e se ne acquista un’altra.
Quanti Satnam Singh dovranno ancora morire per mano di padroni e caporali beceri e disumani prima che, come collettività, daremo uno scatto di reni e passeremo dall’indignazione all’azione? Troppo spesso, come collettività, ci sfugge l’immenso potere che abbiamo nelle nostre mani. Ci auto riteniamo osservatori di eventi e dinamiche e dimentichiamo, o nascondiamo a noi stessi ed alle nostre coscienze, che siamo proprio noi quelli che alimentano (spero inconsapevolmente) determinate condizioni
La morte di Satnam Singh dovrebbe essere un monito per tutti noi, come collettività
So per certo che molti lettori adesso criticheranno questa affermazione, diranno o penseranno: «Ma come? Noi? Noi siamo innocenti!» Invece no, la realtà è questa. La collettività, nel momento in cui consuma, diventa artefice e alimentatrice di un mercato che determina queste condizioni. Se con il nostro consumo, spesso generalizzato e poco conscio o basato esclusivamente sul risparmio, non stiamo attenti, siamo noi stessi ad alimentare il mercato. Una vecchia teoria economica diceva che «la moneta cattiva scaccia quella buona». Pertanto, se con non siamo consumatori attendi ed edotti, alla fine rischiamo di premiare padroni per i quali il costo del lavoro va ridotto al massimo. Ma non per stare nei costi di produzione, bensì per massimizzare i profitti personali e magari acquistare a fine campagna il mega SUV all’ultimo grido. Pagato, ovviamente, con il sangue dei tanti Satnam Singh.
Io penso, spero, che da un lato il mondo agricolo riscopra la sua funzione sociale ripartendo dall’etica, affinché la moneta buona limiti e scacci quella cattiva e si punti su produzioni salubri sia dal punto di vista organolettico sia dal punto di vista etico. E dall’altro canto che noi tutti, come consumatori, ci orientiamo sempre di più verso prodotti ove ai tanti Satnam Singh venga riconosciuta la dignità. In primis come esseri umani e poi come lavoratori