Braccianti agricoli © We-Ge/iStockPhoto
Quali sono le radici del caporalato in Italia e perché un rinnovato ruolo dei poteri pubblici potrebbe aiutarci a renderlo un ricordo
Daniele Calamita
Si parla tanto di caporalato, soprattutto dopo storie tragiche come quella di Satnam Singh. Ma per andare oltre la cronaca, e studiare soluzioni di sistema, bisogna comprendere le motivazioni normative che hanno portato al rafforzarsi di questa deformazione socio-lavorativa schiavistica.
La storia del caporalato in Italia
Nel senso globale, le prime forme di caporalato riguardano la tratta degli schiavi nelle Americhe, basata sulla negazione dei diritti e della dignità umana. In Italia, ha origine agli inizi del Novecento. Sinonimi funzionali di caporale sono presenti anche nell’articolazione della mafia siciliana del XIX secolo, con i cosiddetti Gabellotti.
Dagli anni Settanta, alla figura di caporale/fattore di campagna si affianca il caporale puro. È l’intermediatore di mano d’opera: non colui che dirige la grande azienda agricola latifondista, bensì colui che organizza le squadre di lavoro incassando una percentuale sulla singola giornata agricola e sul trasporto (con furgoni). E attuando, al pari del caporale/fattore di campagna e del gabellotto, forme di violenza e sudditanza psicologica. Col caporale puro inizia a emergere quello che oggi viene chiamato caporale 3.0, con una sorta di evoluzione negativa dei fenomeni di sfruttamento.
Il caporalato in Italia ha assunto forme diverse e meno visibili, ma è sempre esistito. Fino a circa vent’anni fa, riguarda quasi esclusivamente i lavoratori italiani vittime del caporale-fattore di campagna o del caporale puro. In ambo i casi, alla base c’è la sudditanza psicologica occupazionale: «Devo essere bravo e fare regali, così il caporale mi fa lavorare». Le commissioni del collocamento svolgono in modo positivo una forma di calmierizzazione delle dinamiche del caporalato. In questo caso, le aziende richiedono i lavoratori al collocamento pubblico (chiamato numerica) e c’è una commissione in cui il sindacato stila una lista di lavoratori in base all’anzianità di disoccupazione. Ovviamente non tutte le aziende utilizzano lo strumento, una parte sfugge e si rivolge ai caporali; il fenomeno è comunque presente, ma più limitato.
Il caporalato inizia a riaffermarsi con forza sul finire degli anni Settanta, diventa più forte intorno agli anni Ottanta ed esplode brutalmente dagli anni Novanta in poi. Fino ad arrivare ai nostri tempi, con forme che vanno decisamente oltre la sfera del lavoro ed entrano nella gestione materiale della vita degli schiavi dei nostri tempi.
Il ruolo del collocamento pubblico
Il collocamento pubblico nasce nel periodo post-fascista con la legge n. 264 del 29 aprile 1949 che disciplina la mediazione nel mercato del lavoro, attribuendo questa funzione alle strutture dello Stato e prevedendo la sanzione penale per gli intermediatori privati. Già all’epoca quindi esistono i caporali, tant’è che il legislatore prevede esplicitamente la condanna di tali atti.
Con la gestione pubblica si stabilisce l’iscrizione in apposite liste tenute dalle SCICA o uffici di collocamento. Il datore di lavoro che intende assumere personale presenta una “richiesta di avviamento al lavoro” in cui inserisce il numero dei lavoratori richiesti e la qualifica che devono possedere (chiamata numerica). L’ufficio di collocamento dispone l’avviamento del lavoratore. Quest’ultimo mensilmente annota su un’apposita tessera (il C1, Tesserino rosa) lo stato di disoccupazione, al fine di non perdere il posto nella graduatoria. In caso di lavoro, viene cancellato dalla graduatoria per reiscriversi, su sua richiesta, alla fine della prestazione. Il rapporto è poi trascritto sul Libretto di Lavoro che attesta allo SCICA l’avvenuto effettuazione del lavoro, la qualifica conseguita, il periodo ecc. Le richieste pervenute dai datori di lavoro sono valutate da una commissione tripartita che vede anche la presenza del sindacato.
La liberalizzazione del mercato del lavoro
Il sistema rimane inalterato dal 1949 fino agli anni Settanta. Dopodiché la legge n. 83 (11 maggio 1970) regolamenta il collocamento speciale in agricoltura e la legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), agli artt. 33 e 34, modifica la chiamata numerica. Successivamente la legge n. 56 (28 febbraio 1987) e la legge n. 223 (23 luglio 1991) abrogano l’obbligo della richiesta numerica, concedendo dapprima l’assunzione su richieste nominative per la metà degli assunti, estesa poi per intero a tutti.
La legge n. 609 (28 novembre 1996) liberalizza completamente il sistema delle assunzioni, abolendo anche l’obbligo della richiesta preventiva. Il lavoro entra nella legge di mercato, ossia domanda e offerta. Questa riforma, voluta dall’allora ministro Tiziano Treu, nei fatti apre le porte al sistema di mediazione e collocamento dei lavoratori. Un’ulteriore riforma che indebolisce – anzi, finisce di annientare – quel poco che rimaneva del collocamento pubblico di Stato è la riforma Bassanini. Col decentramento delle funzioni dello Stato in base al principio di sussidiarietà, infatti, attribuisce le funzioni del mercato del lavoro alle Regioni che, a loro volta, le trasferiscono alle province. Lo Stato mantiene soltanto il ruolo di indirizzo, promozione, coordinamento e vigilanza. Con la legge n. 196/1997 (pacchetto Treu) si introduce il lavoro interinale, aprendo definitivamente ai privati.
L’ultima trasformazione del sistema di collocamento avviene con la legge Biagi che modifica la disciplina degli intermediari. Il Jobs Act del governo di Matteo Renzi non interviene sul collocamento ma rende ancor più precario il mercato del lavoro, annullando gran parte delle tutele esistenti a fronte di una presunta necessità di agevolare le assunzioni (cosa che, nei fatti, non avviene).
È evidente che quest’evoluzione porta a una progressiva deregolamentazione e destrutturazione delle norme a tutela del collocamento pubblico fatto in modo trasparente. Di contro, i caporali si rafforzano speculando al massimo sui propri schiavi. È altrettanto evidente che, venute meno le tutele sul versante del collocamento, indebolita la sfera dei diritti (Jobs Act), vivere di lavoro oggi non è semplice. Lo è ancor meno per chi ha un impiego agricolo e sottostà ai caporali.
Il caporalato e il ritorno dello Stato: alcune considerazioni
Se è vero che il caporalato ha preso piede e si è affermato e rafforzato nel momento in cui è venuta meno la funzione regolatrice dello Stato, è evidente che per limitare il fenomeno bisogna in qualche modo tornare a questo ruolo fondamentale (anche se la legge non lo prevede). È altrettanto evidente che quel modello si sconterebbe contro l’opposizione del mondo imprenditoriale. Bisogna dunque trovare soluzioni miste e condivise che siano un giusto connubio fra il passato e il presente, con l’obiettivo di debellare questa forma di sfruttamento che macchia le nostre produzioni.
Ricondurre il ruolo del collocamento a una funzione diretta del potere pubblico, e reinventare funzioni che erano in capo alle vecchie commissioni tripartite, è la sola strada percorribile. E può aiutare a indebolire il sistema del caporale riconoscendo diritti certi ai lavoratori, in primis quello all’assunzione e alla copertura assicurativa, senza trascurare quelli più strettamente contrattuali (livelli e retribuzioni). Il vero rilancio del settore agricolo dovrebbe passare attraverso l’etica e produzioni valorizzate, non attraverso la corsa al ribasso dei diritti dei lavoratori