Il papato di Francesco ha segnato l’ultimo decennio. Per molti aspetti, positivamente: in primis, perché è stata una delle poche voci libere, critiche e assennate sui rischi di uno scivolamento verso la guerra totale (per ora “a pezzi”). Forse la sola, in Occidente, o comunque la più rilevante, tra le figure istituzionali.
Nonostante il grande interesse che il papato di Francesco ha suscitato, non c’è però un altrettanto vasto consenso sui suoi esiti. La Chiesa si trova pertanto in una condizione amletica, sfidata dalla violenza di un’occidentalizzazione allo stesso tempo fallita e incattivita, e con elementi di disagio anche al proprio interno (del resto, il fatto che il papato di Francesco sia osannato dai non credenti e in particolare dai media mainstream globalisti suscita qualche comprensibile dubbio anche in chi lo apprezza). C’è chi lo accusa di essere un accentratore, di cercare un rapporto diretto con il popolo di Dio saltando le mediazioni tipiche della Chiesa, di circondarsi solo di amici fedeli e addirittura di essere più un politico, un uomo di potere, che un’autorità spirituale, senza peraltro riuscire a correggere le storture del governo della Chiesa. Altri sottolineano – al di là degli ostacoli incontrati, che avrebbero frenato la sua spinta riformatrice – l’enorme portata del lessico nuovo di Francesco, del suo pauperismo, dello sguardo costante sugli ultimi. All’interno della Chiesa, tale dinamica si è riprodotta nei termini di una spaccatura tra tradizionalisti e conciliaristi. I primi contestano le innovazioni di Francesco, accusandolo di camuffare cambiamenti epocali del depositum fidei utilizzando un linguaggio semplice, facendole cadere apparentemente quasi per caso dall’alto, al fine di banalizzarle e farle passare (cfr. i dubia che alcuni illustri cardinali gli hanno posto, soprattutto sulla morale sessuale cattolica). Pesa anche la durezza di Francesco verso la Missa vetus ordo (sdoganata invece da Benedetto XVI): un eccesso di severità che sembrerebbe quasi nascondere una sorta di irritazione per il fascino che la Tradizione (comprensibilmente, per tanti aspetti, non ultimi di natura estetico-spirituale) esercita sulle nuove vocazioni (rare e proprio per questo preziose). Vi sarebbe, insomma, una sostanziale incomprensione o insensibilità della Chiesa di Francesco verso le questioni strettamente spirituali e quella dimensione rituale che custodisce da sempre il sacro. D’altra parte, molti sottolineano come lo stile nuovo, di apertura coraggiosa alle persone in carne e ossa, così come la sensibilità ai temi dell’ingiustizia sociale, rappresentino un passaggio necessario e di certo altamente positivo nel solco del magistero del Concilio Vaticano II, quasi una ripresa di un discorso (almeno in parte) interrotto. È indubbio che certe affermazioni di Francesco, spesso pronunciate in occasioni non ufficiali, abbiano contribuito a cambiare una mentalità chiusa e spesso ipocrita molto più di tanti documenti dottrinali. Resta il dubbio che la dimensione teologica e spirituale rischi di passare in seconda linea, che la Chiesa si trovi ad essere un’agenzia di assistenza sociale come un’altra, in società ormai del tutto secolarizzate, mentre dovrebbe volgere una funzione di katechon (cioè di forza frenante del caos, secondo l’immagine della Seconda lettera ai tessalonicesi di Paolo) verso le potenze totalizzanti, disgregatrici e nichilistiche dell’Occidente tecno-finanziario (che non sono solo antisacrali, ma antiumanistiche). La grande domanda è: posto che la laicità è un valore costituzionale, si può secolarizzare al punto di perdere qualsiasi ancoraggio con la propria tradizione (europeo-cristiana), da cui peraltro la stessa secolarizzazione è stata cogenerata? Forse, per tenere in piedi una società fondata sulle “cose penultime”, si può secolarizzare, ma non del tutto. Ovvero un qualche rapporto, certamente dialettico e plurale, con le “cose ultime” – teologiche, filosofiche, etiche, tanto laiche quanto religiose) occorre mantenerlo, per non perdere le sorgenti di senso della nostra cultura, anche laica. Come dimostrano alcune questioni di bioetica, che non si lasciano trattare adeguatamente secondo una dicotomia semplificata progresso/reazione, laicismo/confessionalismo. Le derive della cultura woke, di una destoricizzazione adialettica, di un laicismo aggressivo e unilaterale minacciano le basi stesse dello Stato costituzionale, che è laico ma non anticristiano (anzi, trova nell’eredità del cristianesimo una delle sue radici, come sapevano bene Mortati, Moro, La Pira, Dossetti, Fanfani, ma anche Togliatti).
Francesco si ispira a una teologia del popolo (o popolare), che ha imparato dai suoi maestri argentini (in particolare, il teologo gesuita Juan Carlos Scannone). La contrappone al populismo, ma su tale rigida dicotomia è lecito avere qualche dubbio: proprio l’esperienza argentina mostra che la realtà è più complessa (il peronismo, soprattutto in una prima fase, pur con tutte le sue ambivalenze, è stata una forma di politica popolare, contro l’autodifesa di classe degli abbienti). Del resto, qual è il rapporto tra popolo e populismo? Nella teoria di Laclau e Mouffe, soprattutto in società polverizzate, postessenzialiste e postmoderne, non è così agevole separare rigidamente costruzione egemonica e populismo, determinazione di una frontiera politica efficace e uso del richiamo al popolo attraverso la sussunzione simbolica delle istanze degli esclusi operata da figure carismatiche. Tutto molto a rischio, ambiguo, ma l’alternativa è spesso solo il neoliberalismo oligarchico. Quando contrappone il suo riferimento alla dimensione popolare al populismo contemporaneo, Francesco ha in mente soprattutto i populismi europei di destra, e fa un’operazione polemica che risente dei luoghi comuni e dei riflessi condizionati del dibattito mainstream liberal, filtrati dalle banalizzazioni di un sistema mediatico ormai acritico e asservito, assai meno plurale di un tempo. Molto più saggio sarebbe chiedersi quali siano le cause del successo dei cosiddetti “populismi” (anche in Europa), e comprenderne le ragioni, invece di stendere cordoni sanitari che reificano le cause dei problemi che generano la reazione populista.
Francesco è un papa venuto dall’altra parte del mondo: ciò gli offre una grande chiave per rappresentare sulla scena mondiale un punto di vista diverso, non occidentale (anche se non antioccidentale). Il suo è uno sguardo alterglobalista: ma non siamo al 2000, dopo Genova è successo qualcosa, certe illusioni (in buona fede, ma forse un po’ ingenue) sono cadute. Oggi, la reale natura del potere neoliberale è sotto i nostri occhi: guerra, dominio tecnocratico e finanziario, disumanizzazione, antipolitica dall’alto, negazione e manipolazione della storia, moralismo polemico e strumentale (senza morale). Allora, è necessario chiedersi se sia in crisi la globalizzazione in quanto tale, con la sua ideologia, o semplicemente occorra un’altra globalizzazione, che resta però in sé un fenomeno positivo. Credo che occorra andare al di là di un certo cosmopolitismo di maniera: cooperazione internazionale e globalismo (come dimostra non solo la vicenda ucraina, ma Gaza) sono agli antipodi. Occorre un discorso di verità: il globalismo è un prodotto del neoliberismo, del finanzcapitalismo e del Washington consensus. Pensare di raddrizzarlo dall’interno è illusorio. È l’ideologia globalista in sé che va messa in discussione. In nome di un autentico internazionalismo che si fondi sul pieno riconoscimento reciproco delle differenze, della natura pluriversa del mondo, e su una cooperazione paritaria tra soggettività politico-statuali autonome. Una cooperazione reale non può essere basata sull’assoggettamento e sul doppio standard (quello per cui ciò che è accettabile se operato dall’Occidente diventa degno di stigma morale e sanzione giuridica se lo fanno gli altri, i refrattari).
C’è infine una questione di fondo, relativa alla coscienza della crisi spirituale e politica dell’Europa. In questo senso, decisivo è il problema della secolarizzazione e del suo lascito: cioè l’identità del Moderno. Lo sguardo su un mondo che si è così allargato, ma che rimane striato, fatto di differenze, non può farci dimenticare noi stessi, la nostra origine. E questo vale anche per la Chiesa. Non siamo affatto in un’età post-secolare, ma dentro la secolarizzazione, e subiamo i contraccolpi della nostra incapacità di autodefinirci su un terreno culturale e politico che sia nazionale-popolare, seppur aperto alla solidarietà internazionale. Il rischio di un mix micidiale fatto di nichilismo (non si crede più a niente) e fideismo tecno-scientista (si sacrifica tutto a un moloch irrazionalista-mercatista) deriva, anche, dalla crisi identitaria che ci attanaglia, che chiama in causa pure la Chiesa cattolica