(Foto di Daniela Musumeci )
Maldusa è un’associazione culturale – e politica! – di giovanɘ palermitanɘ, per gran parte studenti universitari che hanno dato vita questa primavera all’acampada, uno spazio che ospita assemblee e movimenti cittadini, gruppi di lettura e dialogo e che promuove la costruzione di reti di collaborazione con i collettivi transfemministi, con Non Una di Meno, con le realtà che praticano l’accoglienza dei migranti.
Il suo nome è una crasi fra Malta e Lampedusa e nasce da un episodio realmente accaduto: ad alcuni naufraghi appena soccorsi fu chiesto quale fosse la loro meta ed essi risposero convintamente “Maldusa”.
È stata realizzata anche Radio Alcantara, che dà voce alle lotte transfemministe e anticarcerarie, per la libertà di movimento globale e l’autodeterminazione.
In quest’ambito si è ideata anche una piccola biblioteca ed è sorta l’esigenza di leggere il libro di Suaad Genem Il racconto di Suaad, prigioniera palestinese (Edizioni Q, Roma 2024), il ricavato delle cui vendite andrà tutto alla cura dei bambini di Gaza.
Così si è realizzato l’incontro con Suaad, svoltosi in due giornate il 5 e 6 settembre scorsi.
Suaad nasce nel 1958 a Freidis (Haifa); studia giurisprudenza in Italia, a Padova e Bologna; consegue il dottorato in Diritto Internazionale all’università di Exeter, nel Regno Unito, dove oggi vive e insegna.
Viene incarcerata nelle prigioni israeliane tre volte, nel 1979, nel 1983 e nel 1991. La prima volta a seguito della partecipazione a una manifestazione per il Libano a Padova.
I capi d’accusa, però, non le sono stati mai notificati; il suo fascicolo, inviato al tribunale militare, è secretato per i prossimi cinquant’anni e, per colmo di misura e paradosso, mentre Israele nega la sua carcerazione ad Haifa e altrove, le viene rifiutata l’iscrizione all’albo degli avvocati per non avere una fedina penale immacolata!
Racconta a ruota libera della sua prigionia, durante la riunione: della sorellanza costruita con le altre recluse, delle torture, del trauma permanente che neppure la terapia e la scrittura hanno lenito, della brutta malattia che l’accompagnerà per sempre ma non le ha impedito di avere una figlia.
Scrivere le ha dato la percezione di caricarsi tutta la Palestina addosso. Il suo femminismo, dice, si curva in una interpretazione palestinese, perché ogni donna ha il diritto di interpretare il proprio femminismo. (E qui scroscia un applauso).
Ha elaborato la violenza psicologica subita (ad esempio, due o tre uomini la guardavano mentre faceva la doccia, nuda, ma non poteva rinunciarvi perché aveva le mestruazioni); ha trasformato l’umiliazione in orgoglio, dicendosi “il mio corpo è libero, vai, vola vola vola…”
La capacità di resilienza le veniva da sua madre, da sua nonna, dal suo nonno sufi.
“La terra che mamma ha coltivato va divisa tra noi nove sorelle, ma i frutti degli alberi piantati al confine si protendono lungo la strada in modo che ne mangino tutti. I trenta ulivi sono per tutti”.
La forza le veniva anche dalle altre donne presenti in carcere. “Ci siamo formate nei nostri orti, con le nostre pietre, con le nostre olive; la nostra forza veniva dal parlare della nostra terra e dei nostri cari; questo ci dava una gioia continua, arricchita dell’esperienza unica e del sorriso unico di ognuna di noi.
Abbiamo fatto lo sciopero del lavoro, perché non volevamo cucinare per i carcerieri israeliani, mentre tra noi impastavamo festosamente il nostro pane, e poi abbiamo proseguito con lo sciopero della fame, perché volevamo riavere la nostra biblioteca.
Ma quando si sono rifiutati di restituirci i libri, abbiamo scritto sui muri, fino a spezzarci le unghie: traducevo gli articoli dei giornali che ci passavano in arabo e li divulgavamo, fingendo fossero le lettere del mio fidanzato Lorenzo, che era diventato il fidanzato di tutte!
Abbiamo creato una sorta di radio e una scuola: quelle di noi che avevano studiato all’università istruivano le altre, in galera fra i 13 e i 18 anni di età… Il carcere diventava una scuola pubblica. Eppure la sofferenza si sentiva ogni giorno.”
Suaad rivendica la sua appartenenza all’OLP e narra con orgoglio dei molti collettivi democratici che sono stati creati, anche dentro le prigioni, e dei gruppi di donne.
Ribadisce che il suo, il loro obiettivo è la creazione di un unico stato socialista.
Avverte, però, che le donne devono assumersi più responsabilità: devono scrivere e non delegare solo a lei il ruolo di portavoce. “Una vera alternativa si può costruire solo se la sinistra palestinese si apre alla prospettiva fifty-fifty. Anche qui (in Europa) ci sono molte giovani attiviste: devono impegnarsi tutte! La rivoluzione palestinese dev’essere anche liberazione dal maschilismo e dal patriarcato e riconoscimento dei diritti delle donne… o non sarà!”
Il focus della sua testimonianza, ribadito anche nell’assemblea del giorno successivo, è che il popolo palestinese non è una vittima, come la narrazione dei media occidentali vorrebbe far credere, ma ha una grande capacità di resistenza. “Il popolo palestinese non è vittima, non cerca pietà, ma solidarietà attiva: l’energia dei compagni di tutto il mondo arriva nelle carceri”.
All’indomani, Karim, giornalista palestinese, ci aggiorna sul numero dei detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane: novemila, di cui mille in detenzione amministrativa, ossia senza capo d’accusa e con una carcerazione rinnovabile ogni sei mesi a discrezione del giudice militare. Inoltre Israele è l’unico paese al mondo che imprigiona “legalmente” i bambini.
Ricorda la catastrofe degli accordi di Oslo del 1993, che illusero su una pace possibile, ma mai realizzata per l’infrazione israeliana di ogni risoluzione internazionale. Da allora si frantumò anche l’unità della resistenza palestinese, poichè in molti non credettero più alla strada diplomatica.
“Siamo un popolo molto paziente; il nome pazienza in arabo indica anche il fico d’India, una pianta semplice e molto diffusa, ma abbiamo diritto al nostro futuro, perciò costruiamo resistenza.”
E Suaad rincara: “il terrorismo è dello stato israeliano; chi lotta contro l’occupazione è partigiano e costruisce Resistenza: non siamo terroristi, siamo partigiani”.
Infine Valentina del Ciss (Cooperazione Internazionale Sud Sud), che lungo tempo ha trascorso in Palestina, ci ricorda: “dove non c’è più niente, né scuole né ospedali e tanto meno case, le donne stanno facendo un lavoro incredibile. Hanno ripulito la scuola-rifugio di Khan junis, cucinato il pane per tutta la comunità e garantiscono supporto psicologico le une alle altre.”
Non siamo noi europei – complici del colonialismo imperialista dalla dichiarazione di Balfour del 1917 o almeno dalla Nakba del 1947 – in diritto di dettare presunte soluzioni di fronte all’attuale genocidio; non siamo noi, nemmeno noi compagni solidali coi palestinesi, in diritto di giudicare le loro strategie di lotta o di indicare una qualche via d’uscita o soluzione politica; ma è nostro dovere – quello sì – impegnarci a decostruire le menzogne mainstream e a denunciare l’orrore di questo sterminio sionista, narrando al contempo quanto di costruttivo si viene facendo