L’Italia preferisce le rivoluzioni “cosmetiche”, gattopardesche, in cui a cambiare è solo l’apparenza, piuttosto che le riforme reali, osteggiate dal neocapitalismo in tutto il mondo e sostituite dal culto del nuovo fine a sé stesso.
L’Italia delle rivoluzioni apparenti
-Francesco Erspamer*
Gli italiani, recita una ‘scorciatoia’ (spesso citata) di Umberto Saba, non hanno mai fatto una rivoluzione. Il problema non è che sia una semplificazione: è che è una semplificazione sbagliata. Gli italiani infatti le rivoluzioni le fanno spessissimo, solo che si tratta di interventi cosmetici, in cui a cambiare radicalmente è solo la veste, l’apparenza: non è un caso che siano ossessionati dalla moda e dalle tendenze. Come aveva intuito Tomasi di Lampedusa, si fa finta che tutto cambi in modo che tutto resti come prima.
Ciò che invece gli italiani non sanno fare sono le riforme, peraltro oggi osteggiate dal neocapitalismo in tutto il mondo e sostituite dal culto del nuovo fine a sé stesso.
Piuttosto che apportare qualche correzione a uno Stato tutt’altro che perfetto ma che aveva generato uno straordinario sviluppo economico e, più importante, sociale e culturale, la mia generazione e quelle limitrofe hanno preferito distruggerne i fondamenti come suggerito dalle sirene del liberismo.
In un trentennio, dai sessantottini ai radicali, dai berlusconiani ai piddini liberal, sono stati liquidati il comunismo e il cattolicesimo, la lira, le grandi industrie nazionali e ancor più rapidamente le piccole imprese, la scuola (cominciando ovviamente dal latino e dalle materie umanistiche), la ricerca scientifica, i centri storici (airbnbizzati o svenduti a banche e milionari stranieri, così sembriamo tanto cosmopoliti), le buone maniere (politicamente scorrette perché disciplinanti e, immagino, patriarcali), addirittura l’italiano, in nome del quale si fece l’unità del paese e che una minoranza (molti intellettuali e i giornalisti quasi al completo, per non dire dei persuasori mediatici che voi chiamate «influencer» e che sono stati introdotti a quello specifico scopo) sta americanizzando al ritmo di una decina di anglicismi al giorno.
Siamo entrati in una nuova fase acuta: sui giornali e sugli a-social non vedo che attacchi allo Stato e all’Italia in generale, con esaltazioni generiche delle magnifiche sorti e progressive che invece renderebbero il resto del mondo infinitamente migliore.
Chiaro segno che gli speculatori stranieri hanno fretta di completare l’asservimento dell’economia italiana e l’annientamento della nostra indipendenza culturale; per potere poi indirizzare le risorse così acquisite verso i mercati ancora da spremere in Medio Oriente, Asia e Africa. I loro interessi sono chiari e la loro strategia ovvia.
Fecero qualcosa di simile per farci entrare nell’euro: ricordo bene che tanti miei connazionali erano sicuri che sarebbero diventati ricchi come i tedeschi senza dover fare sacrifici e neppure acquisire il loro rigore (ci vorrebbero secoli) e che avere un governo e una banca centrale nordeuropei avrebbe portato competenza e onestà, senza che nulla ci venisse chiesto in cambio. L’avranno facilmente vinta anche questa volta?
Saranno insomma gli italiani stessi ad autorizzare o richiedere la privatizzazione (leggi: svendita a speculatori esteri) di quel che resta del sistema pubblico in nome della crociata contro burocrati e fannulloni? a rinunciare a politica e partiti nazionali in nome del mito stelle e strisce della democrazia diretta o mediatica (leggi: gestita da miliardari esteri)? a cancellare tutte le loro tradizioni per non venire accusati di essere dei nostalgici o dei relitti del passato?
Ci sono molte riforme da fare e costeranno sacrifici, impegno, organizzazione, lucidità, solidarietà, un forte senso di appartenenza. I risultati si vedranno fra decenni. L’alternativa è buttare via tutto e sperare che i nuovi padroni vogliano il nostro bene e non il loro.
* Da Francesco Erspamer, professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill