Negli ultimi anni, l’accusa di antisemitismo è stata impiegata come arma retorica per screditare chiunque critichi le azioni del governo israeliano o metta in discussione il razzismo percepito in alcune politiche dello Stato di Israele.
L’uso propagandistico del termine ‘antisemita’
Dopo il ‘7 0ttobre‘, con la vendetta sanguinaria del governo Netanyahu contro i palestinesi, che ha fatto già oltre 40mila morti, l’utilizzo continuo del termine ‘antisemita‘ ha portato a un indebolimento e svuotamento del termine stesso, che, da indicare una forma di odio e discriminazione verso il popolo ebraico, è diventato un mezzo per mettere a tacere qualsiasi critica legittima.
Un esempio emblematico di questa dinamica si è verificato quando il primo ministro israeliano ha definito l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite una “palude antisemita” durante un suo discorso.
Questa dichiarazione ha ribadito il punto: usare l’accusa di antisemitismo per screditare non solo i critici delle politiche israeliane, ma anche chi condanna le violazioni dei diritti umani perpetrate da Israele.
Si tratta di una palese distorsione del concetto, che perde il suo valore originario e viene ridotto a una mera arma ideologica. Il termine diventa una giustificazione per la violenza e la repressione.
La critica mossa dai delegati del Sud globale, che hanno abbandonato l’aula dell’ONU mentre Netanyahu parlava, non era rivolta alla religione ebraica in sé, né al popolo ebraico come collettività, ma al sistema di oppressione e violenza perpetuato da Israele.
I delegati hanno sottolineato che “tutti gli uomini sono uguali”, rifiutando l’idea che esistano popoli eletti o privilegiati, mentre altre religioni e culture possono essere tranquillamente criticate o derise senza incorrere in accuse simili.
Questa disparità porta a una polarizzazione del dibattito, dove il termine “antisemita” diventa un ostacolo alla discussione aperta e onesta.
Un’etica universale o un’etica di eccezione?
Si può davvero criticare una cultura o una religione che si basa su concetti come la trasmissione attraverso il sangue o il concetto di “popolo eletto”?
Il cristianesimo ha superato questa visione con un’ottica universalistica, abbracciando l’uguaglianza di tutti gli esseri umani. In questo senso, chi critica la visione etnica o religiosa dello Stato di Israele non lo fa necessariamente per odio verso gli ebrei, ma piuttosto per sostenere un’etica universale, contraria a qualsiasi forma di suprematismo.
L’uso strumentale dell’accusa di antisemitismo, in questo contesto, diventa un mezzo per proteggere una visione del mondo che si basa sulla superiorità e sulla separazione, piuttosto che sull’uguaglianza. Giustifica la violenza e la discriminazione in nome di una presunta elezione divina.
Verso una decostruzione del concetto di antisemitismo
Ci troviamo davanti alla necessità di decostruire non solo le tradizioni oppressive dell’Occidente, ma anche quelle legate alla cultura ebraica. Mentre l’Occidente ha intrapreso – almeno formalmente – un processo di autocritica e di decostruzione delle sue ideologie violente e razziste, non si può dire lo stesso per quanto riguarda la tradizione ebraica, particolarmente in relazione all’uso del concetto di “popolo eletto” e alla giustificazione delle politiche di Israele.
In questo senso, il rifiuto di ascoltare Netanyahu da parte di molte delegazioni del Sud globale non è stato un atto di antisemitismo, ma un gesto di opposizione contro il suprematismo e il razzismo che percepiscono nelle politiche israeliane.
La battaglia per l’uguaglianza di tutti gli esseri umani è una battaglia che non ammette compromessi, e che il tentativo di etichettare come antisemiti coloro che si oppongono all’ingiustizia e alla violenza rappresenta un tentativo di distogliere l’attenzione dalle vere questioni di oppressione.
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