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L’ondata di occupazioni universitarie è la più grande della storia argentina: la causa scatenante l’annuncio del veto presidenziale alla Legge sul finanziamento universitario, votata dal Parlamento, che aumenta i fondi per le università pubbliche e gli stipendi di professori e personale non docente
1. L’esplosione del movimento
L’ondata di occupazioni universitarie — dicono — è la più grande della storia argentina. È vero che rispetto all’ultimo grande movimento studentesco, quello che negli anni 90 aveva lottato contro la Ley de Educación Superior voluta dal peronismo di destra di Carlos Menem, con l’appoggio finanziario della Banca Mondiale, sono state create molte nuove università, ma i numeri assoluti sono inappellabili. Un centinaio di facoltà di oltre 65 università in tutto il paese. Occupate le facoltà di Giurisprudenza e di Ingegneria dell’Università di Buenos Aires, storici bastioni del centrodestra. Occupata la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Córdoba, città in cui Javier Milei ha vinto al ballottaggio del novembre scorso con più del 74%; occupato il rettorato dell’Università del Cuyo, a Mendoza, dove oltre 71 votanti su 100 avevano scelto il candidato libertario al secondo turno. E la lista di anomalie che lasciano pensare – diciamolo per il momento sottovoce – a un cambiamento nell’umore politico del paese potrebbe continuare.
Quello che fino a poco fa era il grande assente della congiuntura politica argentina, il movimento studentesco, si è risvegliato di colpo. Solo poche settimane fa, a inizio settembre, nonostante gli attacchi continui all’educazione pubblica, le elezioni dei rappresentanti degli studenti all’Università di Buenos Aires, che con una popolazione di oltre 300 mila persone tra studenti e lavoratori è la principale del paese e una delle più grandi del continente, avevano confermato, se non la tendenza della politica nazionale, una sorta di reticenza alla lotta. Il risultato delle formazioni libertarie, va detto, era stato magrissimo, ma la sinistra marxista in tutte le sue correnti – particolarmente forte in Argentina è il troskismo – e la sinistra peronista avevano grosso modo mantenuto le loro posizioni, senza sostanziali balzi in avanti in un contesto in cui l’accesso all’educazione universitaria è sempre più difficile. Le università pubbliche sono completamente gratuite, ma l’aumento nelle tariffe dei trasporti – la metropolitana ha fatto segnare un +850% in dieci mesi, solo per fare un esempio – unito al deperimento dei salari e a un’inflazione annuale settembre-settembre che l’Istituto di statistica e censo argentino-INDEC situa al 209%, stanno producendo un’esclusione di fatto di certe fasce della popolazione.
I numerosi scioperi docenti, che con lezioni a singhiozzo stanno comunque garantendo lo svolgimento del secondo semestre, non hanno prodotto una svolta reale nelle politiche del governo. E l’enorme manifestazione in difesa dell’università pubblica, che il 23 aprile scorso ha portato in piazza oltre un milione di persone, ha avuto il merito di mettere la questione-università al centro dell’agenda, ma non ha forzato l’esecutivo a fare marcia indietro sulla politica dei tagli.
A sparigliare le carte è arrivato l’annuncio del veto presidenziale alla Legge sul finanziamento universitario, votata dal Parlamento il 12 settembre scorso. La legge implicava l’aumento delle spese di gestione delle università pubbliche, intorno al 10% del totale, ma soprattutto l’aumento degli stipendi di professori e personale non docente, che costituiscono il 90% del costo delle università. Il segmento dei docenti universitari è stato quello più colpito dai primi mesi di governo libertario e ha pagato in termini salariali un prezzo molto più pesante di quello, già gravoso, pagato dalla maggior parte dei dipendenti pubblici, ma più in generale dai lavoratori dipendenti. Il risultato è una perdita del potere d’acquisto calcolata intorno al 31% nel periodo dicembre 2023 – luglio 2024, con il grosso del corpo docente al di sotto della soglia di povertà e in molti casi pericolosamente vicino alla soglia di indigenza.
Milei, che governa in minoranza in entrambe le Camere (39 Deputati su 257 e 6 Senatori su 72), ha fatto quello ha sempre promesso di fare rispetto a ogni misura che mettesse i bastoni tra le ruote all’equilibrio fiscale e a quelli che considera, con orgoglio, i tagli più grandi della storia mondiale: mettere il veto presidenziale. «Veto tutto», aveva detto a giugno quando il Parlamento aveva approvato una legge che aumentava le pensioni minime, condendo l’affermazione con un «Me importa tres carajos!» (frase particolarmente volgare, che potremmo tradurre liberamente con: «Me ne sbatto il cazzo»). Perché un presidente possa porre il veto a una legge approvata dal Parlamento, è sufficiente che riunisca un terzo dei voti in almeno in una delle due Camere e a quest’impresa sono soliti collaborare volentieri tutti i parlamentari di Propuesta Republicana, il partito dell’ex-presidente Macri, e, grazie a qualche incentivo di varia natura, alcuni membri dello storico partito centrista dell’Unión Cívica Radical e altri del variegato mondo del peronismo. Non è quindi un’impresa titanica arrivare alla soglia di un terzo dei voti: così è stato per l’aumento alle pensioni e così è stato per la legge per il finanziamento dell’università. In un sistema presidenziale come quello argentino, il presidente ha molte freccie al suo arco per schivare gli ostacoli che gli pone il Congresso.
L’annuncio del veto è stato però la scintilla che ha incendiato un prato lasciato per troppo tempo senza una goccia d’acqua. Sono partite immediatamente le prime occupazioni in diverse facoltà del paese. Con l’approvazione definitiva dello stesso, mercoledì 9 ottobre (84 voti a favore e 160 contrari alla Camera), si è scatenata un’ondata di occupazioni a tempo indeterminato a cui si continuano ad aggiungere quotidianamente facoltà.
Milei – debole su tutti i fondamentali, dall’economia alla gestione politica, passando per la grammatica e le operazioni aritmetiche semplici – non si aspettava una risposta del genere. Fedele al suo stile da rockstar, continua a ostentare strafottenza e sembra non prendere in considerazione la possibilità che la sua immagine possa andare in frantumi, ma il suo codazzo di influencer – il cui profilo generale è quello del maschio incel con serie difficoltà a sostenere un dibattito mediamente complesso –, sta cominciando a pedalare a vuoto, quando si trova a dover difendere misure che stanno avendo effetti devastanti sul tessuto sociale argentino e non basta più abbaiare frasi senza senso contro corruzione, casta e «zecche impoveritrici» ed esaltare il potere taumaturgico del mercato. La possibilità di disputare le piazze alla sinistra e al peronismo sembra, almeno per il momento, tramontata. Anche sui media, adesso, i liberali stanno arrancando.
2. La reazione del governo.
Sabato 12 ottobre, anniversario dell’arrivo di Colombo in America. Il pulpito al centro del palco e le luci azzurre incorniciano la figura di Milei. La messa in scena sobria stride con la violenza verbale del presidente e della sua “accolita di rancorosi”. L’occasione, forse, non è di quelle più importanti, ma è comunque simbolicamente ghiotta per data, luogo e momento. Dopo dieci mesi di annunci, è stato cambiato ufficialmente il nome del Centro Culturale Kirchner, il centro culturale più grande del paese, con un’enorme offerta di iniziative gratuite che vanno dal cinema per bambini ai concerti di musica classica. Il “se-se-kà”, come viene sillabato colloquialmente l’acronimo, da adesso si chiamerà Palacio Libertad.
Oltre a continuare a privatizzare la parola “libertà”, fagocitata dall’universo libertario che punta a escluderne ogni uso non individuale e negativo, Milei ha approfittato della platea per dare un altro passo avanti nella feroce battaglia antirevisionista. Nella ricorrenza di quella che un tempo si chiamava “Scoperta dell’America” e che durante il kirchnerismo aveva preso il nome di “Giorno del rispetto e della diversità culturale”, il presidente twittero ha detto: “Abbiamo civilizzato la barbarie”, rivendicando la figura di Julio Argentino Roca, celebre per aver condotto nel periodo 1878-1885 la “conquista del deserto”: l’incorporazione allo Stato argentino di un territorio chiamato “deserto” non perché particolarmente arido, ma perché abitato da “selvaggi” non organizzati in uno Stato moderno, grazie allo sterminio di migliaia di abitanti nativi.
Dopo aver serrato le sue fila e deliziato i palati più conservatori, Milei ha rivolto il suo attacco verso il vero obiettivo polemico, quel movimento studentesco che da qualche settimana ha preso il centro della scena e gli sta creando un serio grattacapo. Il presidente lo ha fatto in un modo che rappresenta una svolta radicale rispetto al discorso delle settimane precedenti, riportandolo ai fasti del Milei candidato e rivitalizzando il discorso della talpa che vuole distruggere lo Stato da dentro.
Fino alla settimana precedente al veto, il discorso che ripeteva Milei può essere riassunto in questi termini: le università sono in buona salute, quelli che protestano sono professori di sinistra e kirchneristi che vogliono destabilizzare il mio governo. L’odio, linfa vitale del movimento libertario, faceva leva sul desiderio di sciovinismo del welfare e di lotta alla corruzione. Da un lato si reclamava che l’università pubblica, pagata con i soldi dei contribuenti argentini, non può e non deve essere gratis per gli studenti stranieri (studenti che a fronte a un costo marginale quasi nullo, dànno il loro apporto al mercato interno, molto spesso con aiuti familiari che provengono dall’esterno). Dall’altro lato, si chiedeva alle università di rendere conto della maniera in cui vengono spesi fondi pubblici. Una aspirazione assolutamente legittima, si dirà, ma quello che il governo fa finta di non sapere, o direttamente ignora, è che le università hanno revisioni di conti interne, disponibili anche in rete, e che l’ente statale preposto, l’AGN (Auditoría General de la Nación), che dipende dall’esecutivo, può disporre in qualsiasi momento una revisione esterna senza dover chiedere alcun permesso alle autorità universitarie. Per ora non lo ha fatto.
Dopo l’inizio delle occupazioni e l’aumento delle mobilitazioni che quotidianamente si fanno visibili in vari punti di varie città – oltre alle occupazioni: lezioni in strada e in altri luoghi pubblici, come l’emblematica Plaza de Mayo; blocco contemporaneo in orari di punta di varie arterie della capitale: Avenida Rivadavia, Avenida Córdoba, Avenida Independencia –, e suscitano per adesso più solidarietà che insofferenza, il presidente e i suoi hanno deciso di spingere sull’acceleratore. Recuperando un classico della narrativa neoliberale creola, Milei ha detto che “in un paese dove la grande maggioranza dei bambini sono poveri e non sanno leggere, scrivere né realizzare un’operazione matematica semplice, il mito dell’università gratuita diventa un sussidio dei poveri verso i ricchi”. È quasi un manifesto di una certa forma di pensare l’intervento dello Stato: un presidente che da quando si è insediato alla Casa Rosada non ha fatto altro che favorire la parte superiore del primo decile della popolazione e una redistribuzione regressiva della ricchezza, creando 5,4 milioni di nuovi poveri in 10 mesi (fonte: Observatorio de la deuda social dell’Università Cattolica Argentina) fa leva sull’indignazione sollevata da un presunto (e smentito dai dati) sussidio ai ricchi. Al di là del fatto che nel dibattito neoliberale non c’è una posizione univoca rispetto alle politiche educative e i teorici sono divisi tra una critica al sussidio, considerato intervento innecessario dello Stato – questa è la posizione, per esempio, di Benjamin Rogge – e la necessità dell’intervento statale affinché il mercato delle idee non finisca per pregiudicare quelle neoliberali – questo, semplificando un po’, è il punto di vista di George Stigler – in America latina è un argomentazione abusata quando si tratta ostacolare l’uso di fondi pubblici per l’educazione. Sia che si tratti di tagliare, come in Argentina, sia che si tratti di negare un maggior finanziamento diretto, come in Cile.
E alla luce della ricetta economica basata su tagli ai redditi alti ed equilibrio fiscale, costi quel che costi in termini sociali, è perfettamente comprensibile che il presidente metta cinicamente in competizione l’impegno statale per sostenere le università e i fondi per le politiche destinate a certe fasce della popolazione, nonostante l’università pubblica sia da sempre un fattore di mobilità sociale ascendente.
Tornando alle dichiarazioni di Milei. Il presidente non segue una sceneggiatura, ama improvvisare e questo obbliga i suoi luogotenenti a smussare gli angoli di affermazioni rilasciate d’impeto. È successo così, quando ha annunciato 60 miliardi di tagli alle province, con il capo di gabinetto, Guillermo Francos, che aveva dovuto “tranquillizzare” a stretto giro di posta i governatori e in varie altre circostanze. Nel caso del conflitto con gli studenti, sembra invece che la linea dura sia quella ufficiale. Lo stesso Francos ha detto di aver già visto questa scena, negli anni Settanta, e che gli studenti sono poi diventati terroristi. L’ineffabile ministra di Seguridad, Patricia Bullrich, gli ha fatto eco dicendo che ha ricevuto informative sul fatto che gli studenti porteranno molotov ai cortei (traduzione: «ho dato ordine ai servizi di mandare infiltrati con molotov»).
Anche se non può non destare preoccupazione quella che sembra un’escalation voluta dal governo, questo atteggiamento dimostra, dall’altra parte, un certo nervosismo. D’altronde, contro il movimento studentesco hanno sbattutto molti governi. In Argentina, il famoso “cordobazo”, tre giorni di battaglia campale tra studenti e operai e forze dell’ordine, ha segnato nel maggio del 1969 un punto di inflessione nel progetto di sviluppismo autoritario della dittatura di Juan Carlos Ongania. Altri tempi, si potrebbe obiettare, altro contesto regionale, con migliaia di giovani che sognavano di emulare la rivoluzione dei Barbudos cubani.
È vero, ma dall’altra parte delle Ande e più vicino nel tempo, il caso cileno dimostra che gli incendi divampati nelle aule possono essere molto pericolosi per la stabilità dei governi. E adesso Milei si gioca molto su un terreno scivoloso e rischia di inciampare su quello che era un piccolo ostacolo; un ostacolo che con un minimo di pragmatismo poteva schivare a costi abbastanza contenuti per le casse dello Stato: la legge richiedeva un impegno finanziario pari allo 0,14% del PIL; solo per fare un esempio, gli sgravi fiscali ai 10.000 patrimoni più alti del paese ha comportato una riduzione del gettito fiscale dello 0,4%. E forse è stata profetica l’ammonizione di uno dei personaggi più ambigui e scaltri del panorama parlamentare argentino, l’ex-capogruppo peronista al Senato, passato poi al macrismo e ora leader di una formazione di centro, Miguel Angel Pichetto. Annunciando il suo voto contrario al veto, Pichetto ha dichiarato: «Probabilmente oggi pomeriggio vincerete. Credete di vincere, però in realtà perdete. Inevitabilmente perdete».