L’inchiesta shock di Al Jazeera (si usa definire così il disvelamento di realtà imbarazzanti, ma la cosa era abbastanza palese agli osservatori più attenti), ha rivelato che su oltre 1.200 missioni di ricognizione e intelligence condotte per identificare i bersagli da colpire a Gaza e in Libano, il 20% è stato eseguito da velivoli israeliani, il 33% da aerei statunitensi, e il 47% da quelli britannici.
In sostanza, il 70% delle operazioni di sorvolo mirate a colpire obiettivi coperti ufficialmente dal marchio ‘Hamas‘ e ‘Hezbollah‘ – che in pratica si risolvono nel colpire edifici, ospedali, scuole e causando vittime civili – è stato svolto da forze anglo-americane, con aerei che partono da basi situate in Germania, Grecia, Cipro e in Italia nel cuore del Mediterraneo.
Questo dimostra quanto siamo implicati in questo conflitto, senza che ci sia una reale trasparenza al riguardo. Dobbiamo seguire la tv qatariota per sapere quello che accade in Italia?
Il “Ponte aereo” USA e UK per Israele
La crisi in Medio Oriente, con epicentro a Gaza e Libano, non coinvolge solo Israele ma rappresenta il riflesso di alleanze internazionali che, attraverso operazioni mirate e un supporto logistico strutturato, stanno dando forma a un conflitto di portata maggiore, il cui bersaglio finale è l’Iran.
Gli Stati Uniti e il Regno Unito sono alleati principali di Tel Aviv e, secondo fonti come l’inchiesta trasmessa da Al Jazeera, hanno attivato un “ponte aereo” di supporto militare per Tel Aviv, coinvolgendo circa 6.000 voli, tra cui almeno 1.200 aerei cargo.
Questa operazione su larga scala, che include voli di ricognizione e intelligence, rappresenta un’iniziativa strategica con obiettivi precisi: individuare e colpire bersagli, principalmente legati a Hamas e Hezbollah.
L’inchiesta evidenzia che, su oltre 1.200 voli di ricognizione, il 70% è stato effettuato dagli aerei statunitensi e britannici, con una suddivisione che vede il 33% degli interventi operati dagli americani e il 47% dai britannici.
La portata di queste operazioni rivela l’ampiezza della collaborazione strategica con Israele e un coinvolgimento diretto nelle incursioni in territori come Gaza e Libano. Con base in Europa e nel Mediterraneo centrale (da Germania, Grecia, Cipro e Italia), gli aerei anglo-americani non solo forniscono sostegno aereo ma partecipano attivamente nelle operazioni di sorveglianza per individuare obiettivi militari, pur consapevoli che ciò si traduce in distruzione di edifici e infrastrutture essenziali, causando i massacri di civili, soprattutto donne e bambini, che vediamo quotidianamente, soprattutto in rete, dato il lavoro incessante dei grandi media per tenere bassa l’attenzione su questo.
Il “Patto di Abramo” e il ruolo delle monarchie arabe
Nel contesto delle alleanze internazionali emerge anche il ruolo del “Patto di Abramo“. Lanciato sotto l’amministrazione Trump e supportato dall’attuale presidente Joe Biden, questo patto aspira a normalizzare le relazioni tra Israele e alcune monarchie arabe.
Tuttavia, molti paesi arabi mantengono una posizione ambivalente: l’Arabia Saudita, ad esempio, ha rilasciato un comunicato contro la violazione della sovranità iraniana ma ha evitato di nominare Israele. Questa reticenza riflette la difficoltà di conciliare la crescente collaborazione con Israele con il sostegno alla causa palestinese, cercando un equilibrio tra l’opposizione regionale all’Iran e la volontà di evitare un’aperta condanna delle azioni di Tel Aviv.
Il conflitto Israele-ONU e il Diritto Internazionale a giorni alterni
L’ONU, tramite la missione Unifil, ha segnalato ripetute violazioni ai suoi posti di osservazione nel Libano meridionale. Gli attacchi dell’esercito israeliano a queste strutture hanno portato le Nazioni Unite a definire la situazione di sicurezza “estremamente difficile”.
Israele denuncia la presenza dei peacekeeper come uno scudo per i “terroristi”, una visione supportata da dichiarazioni dirette del premier Netanyahu. Tuttavia, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha sottolineato, almeno a parole, la necessità di proteggere le forze di pace ONU, anche se l’impegno concreto per proteggere Unifil risulta scarso.
Questo scenario riflette l’ambiguità abituale, che possiamo definire tranquillamente come farsesca, che si traduce in un tacito appoggio alla politica israeliana, mantenendo la missione ONU in una condizione di vulnerabilità.
L’Italia e il rischio di un conflitto prolungato
La partecipazione indiretta dell’Italia, con la possibile apertura di una base logistica militare in Qatar, solleva interrogativi sul coinvolgimento europeo nel conflitto mediorientale. Le azioni anglo-americane in Medio Oriente, spesso svolte senza che l’opinione pubblica ne sia informata, richiamano un contesto di guerra non dichiarata, con i principi di «legalità internazionale» che sembrano progressivamente perdere significato.
La guerra in Medio Oriente appare più come uno strumento geopolitico che come una reazione difensiva, con l’auspicio di una tregua che sembra allontanarsi, e il rischio di un’escalation verso l’Iran che potrebbe attendere soltanto il prossimo leader alla Casa Bianca per esplodere in una guerra aperta.
L’assenza di una posizione chiara e condivisa da parte della comunità internazionale, insieme a un silenzio mediatico sulle operazioni militari, contribuisce a prolungare una situazione che appare sempre più insostenibile.
La strategia sembra orientata a un divide et impera su base etnica, religiosa e settaria, con il “Patto di Abramo” che costituisce la cornice per una ridefinizione degli equilibri regionali