Un rapporto delle Nazioni Unite punta il dito contro il nostro sistema economico per il dilagare dei problemi legati alla salute mentale

Valentina Neri

Ci hanno raccontato che la crescita del prodotto interno lordo (PIL) fosse l’unico e solo obiettivo da perseguire. Che fosse l’unico e solo parametro in grado di misurare il benessere di una nazione. Il risultato? Ora viviamo in un mondo sull’orlo del collasso ambientale e sociale. Un’«economia del burnout» in cui, per la salute mentale di larghe fasce della popolazione, la disoccupazione diventa paradossalmente preferibile a un lavoro pressante, con scarso potere decisionale, instabile e pagato troppo poco. Sono le conclusioni a cui giunge il nuovo rapporto di Olivier De Schutter, relatore speciale sulla Povertà estrema e i diritti umani delle Nazioni Unite.  

Il circolo vizioso tra povertà e disturbi legati alla salute mentale

Dopo la precedente analisi delle storture figlie dell’ideologia della crescita a tutti i costi, questo nuovo lavoro di Olivier De Schutter si concentra sulla salute mentale. Che non è soltanto una questione individuale. Lo dimostra il fatto che esista una sorta di circolo vizioso per cui la povertà compromette la salute mentale e questo, a sua volta, ostacola i tentativi di risollevarsi dalla povertà stessa. Una correlazione testimoniata da diversi studi scientifici. D’altra parte, l’insicurezza economica è una continua fonte di stress. E una persona che fatica ad arrivare a fine mese tende anche a rimandare l’accesso ai servizi di supportoperché non li conosce o teme di non poterseli permettere.

Viene da pensare che gli Stati più poveri del Pianeta siano quelli con la maggiore diffusione di problemi legati alla sfera mentale, ma non è esattamente così. Nei Paesi a basso reddito, l’incremento del PIL pro capite è accompagnato da una maggiore soddisfazione per la vita. Nei Paesi industrializzati come quelli europei, invece, sono le disuguaglianze ad avere gli strascichi più pesanti in termini psicologici. E ad averli su tutti. Le persone povere, o che rischiano di diventarlo, hanno meno risorse per reagire e dunque rischiano di ripiegare su alcool o droghe. O sul suicidio, la quarta causa di morte nella fascia di età 15-29 anni.

Una «pandemia» di ansia e depressione

Oggi l’11% della popolazione globale convive con un disturbo legato alla salute mentale, tra cui depressione (280 milioni di persone) e ansia (301 milioni). L’incidenza di entrambe queste condizioni è aumentata del 25% durante il primo anno di Covid-19. I problemi legati alla salute mentale hanno ripercussioni gigantesche sul piano economico: le perdite stimate sono nell’ordine dei mille miliardi di dollari all’anno. E se è vero che in certi casi i farmaci possono aiutare, è vero anche che la motivazione profonda di una simile «pandemia» non sta solo nel funzionamento di serotonina e dopamina. Quanto, piuttosto, nella «pressione crescente per una maggiore produttività».

Lo studio di Olivier De Schutter è un duro atto d’accusa contro un mondo del lavoro che accelera i ritmi all’inverosimile, fa pressione per la produttività, spinge le persone a competere le une contro le altre. Arriva a dire che, in termini di salute mentale, talvolta addirittura la disoccupazione sia preferibile rispetto ad avere un lavoro che chiede troppo e offre troppa poca sicurezza in cambio. Soprattutto in questa «economia sempre più terziarizzata che funziona 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in cui il lavoro precario e l’organizzazione della produzione “just-in-time” diventano la norma, e in cui gli orari di lavoro sono determinati da algoritmi», risultando dunque imprevedibili

Come superare l’«economia del burnout»

Cosa fare per lasciarsi alle spalle quella che il titolo dello studio definisce «economia del burnout»? Investire di più nella salute mentale, innanzitutto: oggi in media ogni Stato stanzia appena due dollari pro capite, una cifra che scende a 25 centesimi nei Paesi a basso reddito. Bisogna anche investire meglio: oggi il 67% delle risorse va agli ospedali psichiatrici, trascurando dunque i servizi sul territorio e il vasto capitolo della prevenzione.

Ma, se alla base ci sono dinamiche di tipo socio-economico, è anche e soprattutto su di esse che bisogna agire. Perseguendo un «nuovo contratto eco-sociale» che si opponga alle disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Tornando a dare priorità al benessere e non più al PIL. Combattendo la precarizzazione del lavoro. Rendendo davvero universali le misure di protezione sociale, invece di erogarle – come accade nella stragrande maggioranza dei casi – solo a fronte del rispetto di condizionalità stringenti. Anzi, si potrebbe ragionare sul reddito universale di base: studi condotti in vari contesti dimostrano i suoi effetti positivi anche sul benessere psicologico della popolazione.

«È solo affrontando questo sistema economico che non funziona e mettendo il benessere al di sopra della continua ricerca di crescita che possiamo iniziare ad affrontare seriamente la povertà e la crisi della salute mentale che la accompagna», conclude De Schutter

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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