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Mi cito e non lo faccio spesso. Anzi, non lo faccio mai perché lo trovo di pessimo gusto. Anche ora che sto per riscrivere cosa avevo pensato dei Cinquestelle soltanto cinque, sei, sette anni fa quando, sull’onda dell’oltre 30% ereditato dalla rivoluzione populista grillina, il Movimento con la emme maiuscola andava prima al governo con Salvini e poi con il PD, Renzi e poi, ancora, nell’esecutivo di unità nazionale di Mario Draghi.

Dunque, mi cito. Scrivevo cinque anni fa…: «…la rivoluzione grillina si trasforma in controrivoluzione e lo fa mantenendo i decreti sicurezza del precedente governo per garantirsi una sponda elettorale di destra e, al contempo, proclama la sua vittoria nel taglio dei parlamentari mentre siamo in presenza di un ennesimo tentativo di riduzione dell’agibilità democratica delle Camere…».

L’editoriale si intitolava “L’autunno dei Cinquestelle e della rivoluzione mai avvenuta” e, come è abbastanza evidente, sottolineava alcune criticità manifeste di un percorso che non aveva, proprio in quella che pareva essere la sua giovinezza politica, dato seguito ad una seconda fase: quella della maturità.

Dopo un lustro, ripercorrendo gran parte di quello che ho scritto sul Movimento, non posso non constatare che, in così brevissimo tempo, le mutazioni politiche sono state accelerate da stravolgimenti globali: ad iniziare dalla pandemia che, di lì a poco, si sarebbe imposta come vera e propria crisi globale, come svolta di una fase di già evidente instabilità del capitalismo liberista moderno e che, quindi, avrebbe costretto anche le istituzioni, i partiti e, perché no, i movimenti a ripensarsi radicalmente. Il governo Conte 2 si trovò nel mezzo di quel ciclone furibondo di mascherine, zone rosse, divieti, isolamenti, imposizioni, debite distanze.

Qui lettrici e lettori di queste righe assentiranno o dissentiranno molto più radicalmente rispetto a tante altre prese di posizione: perché il dibattito sulla Covid19 ha spaccato il Paese; se non a metà, quanto meno obliquamente, con forti minoranze che si sono messe di traverso negando la consistenza dell’emergenza sanitaria, inventandosi una dittatura altrettanto tale, concetto cavalcato da facinorosi ex forcaioli, ma mai ex fascisti. Quelli che assaltarono, sul finire del biennio pandemico, la sede nazionale della CGIL dando prova del loro squadrismo inveterato.

Conte gestì male quella fase? A mio parere tutt’altro. Soltanto osare immaginare l’attuale maggioranza di estrema destra in una situazione del genere, fa accapponare la pelle. Dalla fine dell’emergenza da coronavirus inizia una mutazione complessiva del quadro della politica internazionale che, inevitabilmente, è cambiamento radicale anche della geopolitica interna italiana. Lì nasce la figura di un Giuseppe Conte leader oltre i banchi del governo.

Lì nasce la possibilità per un Movimento 5 Stelle inaridito e privo dell’iniziale mordente grillino, sceso a troppi compromessi, la possibilità di rinverginirsi. Ed infatti, nonostante la lunga parentesi del draghismo, i Cinquestelle, per quanto vadano malaccio ad ogni tornata elettorale regionale, pur conquistando la presidenza della Regione Sardegna, mantengono una rappresentanza nazionale degna e di tutto rispetto numericamente parlando.

Nei sondaggi viaggiano sempre sulla doppia cifra, attestandosi tra un massimo del 16% e un minimo del 12%. Risulta chiaro che la stagione della maggioranza relativa è passata: così è stato per il berlusconismo (di lunghissima durata), così per il renzismo, per il tentativo di Salvini di essere Presidente del Consiglio, e così avviene anche per il M5S.

È il ventre molle di un elettorato che si distingue per la capacità di scegliere quello che giornalisticamente si chiama “il cambiamento“. Per antonomasia quasi. Per una eccellenza che, di volta in volta, pare come affidata dalla sorte, dalla riesumazione del Fato antico, oggi moderna deificazione del trasformismo italico di cinque, sei milioni di cittadini che non hanno radice ideologica: soprattutto dopo che, per primo il cavaliere nero di Arcore, per secondo Beppe Grillo, hanno proclamato a pieni polmoni che si vota contro e non pro. Contro i comunisti e le sinistre prima, contro la casta dei partiti poi.

E quindi le ideologie sono bandite, bannate, anatemizzate, ridotte ad uno straccio da sventolare che fa compassione ai più e che, mestiziamente, ringiovanisce qualche ricordo della cosiddetta “prima repubblica” in centristi nella diaspora perenne, in socialisti non toccati dalle inchieste di Tangentopoli, in comunisti alla ricerca di una nuova stagione della lotta di classe.

Il Movimento delle origini è rivoluzionario solamente in questo senso: vuole rompere un sistema di potere sovrastrutturale, una gestione malavitosa della politica nazionale, ma non mette in discussione il sistema economico (quindi strutturale) che è all’origine di quella perversione.

Per questo il Movimento 5 Stelle di Grillo e Casaleggio è l’anticasta, l’antipolitica, la democrazia digitale, la forza politica “leggera” che affronta i suoi passaggi elettorali decidendo sulla “piattaforma Rousseau” il da farsi e non affidandosi a congressi in cui l’iter delle discussioni è novecentescamente vissuto come vetusto, obsoleto, privo di un moderno mordente di partecipazione da un basso che si rifugia nell’internettismo totalizzante.

Mentre Grillo riempie le piazze e manda fare in culo metà e più della classe politica e dirigente del Paese, sdoganando un linguaggio privo di qualunque voglia di dialogo con chiunque, il Movimento diviene esclusivista.

Ed è questa alterità a tutto e tutti che è la grande intuizione populista su cui vince e sbanca il casinò della politica italiana nei primi anni: fino ad arrivare al governo del Paese. Ma qui c’è il primo grande intoppo. Nonostante abbia ottenuto il 33% dei voti, se vuole governare e non deludere le aspettative degli oltre dieci milioni di elettori che lo hanno sostenuto, deve aprirsi alle altre forze politiche. Le analisi del voto parlano chiaro: a mettere la croce sul simbolo pentastellato sono soprattutto i giovani e i quarantenni. Ed in particolare al centro-sud.

Il 1° giugno 2018 nasce il governo Conte I. I Cinquestelle non hanno scelto il bicolore giallo-verde: la Lega di Salvini è il loro alleato. In un anno e mezzo la compromissione tra le due forze politiche sclerotizza su sé stessa: ambizioni e frustrazioni di scontrano in un turbinio di rivendicazioni reciproche che non hanno trovato concretizzazione e l’esperimento crolla ignominiosamente. Conte però ne viene fuori come colui che ha subito le vessazioni leghiste e riesce a traghettare sé stesso e il Movimento nel campo opposto. Quello progressista.

Non c’è che dire: un capolavoro di trasformismo tutto italiano. Immediatamente dopo, la pandemia. Qui Conte redime sé stesso dall’errore del governo giallo-verde e, pur con tutte le compatibilità del caso nel successivo frutto del peggiore dei tecnicismi espresso nella compagine pseudo-unitaria del governo Draghi, inizia, complice il mutamento complessivo di un mondo che cambia nel giro di due anni, a traghettare i Cinquestelle nell’ottica del pensarsi come forza “progressista” e non solo più alleata del sinistra moderata.

La costituente che si tiene in questi giorni appare quindi come il tentativo concreto di dare una sostanza programmatica ad un percorso non di breve durata, in cui il grillismo è venuto via via meno, dopo l’abbandono di Di Maio e di Di Battista, dopo la fine di una architettura leggera dell’organizzazione che non ha retto alla teorizzazione visionaria casaleggiana del partito digitale, del Parlamento internettiano, dell’algoritmizzazione di una politica che, lo si voglia o meno, non può esprimersi quasi esclusivamente tramite l’intermediazione di tastiere e schermi.

Il problema pandemico ha dimostrato che chi vuole cambiare l’Italia non può prescindere dalla presenza istituzionale e da una logica politica che rispetti la Repubblica piuttosto di mandare a fanculo indistintamente il “sistema dei partiti“. Fino all’avvento del grillismo, pochi avevano osato lanciare strali contro la forma partito in quanto tale. Da Pannella a Bossi, passando per Berlusconi e gli eredi dell’ex MSI, le critiche alla “partitocrazia” sono, il più delle volte, rimaste a galleggiare su una sostanziale accettazione delle regole e persino delle tanto vituperate “ideologie”.

Il post-ideologismo è proprio non tanto della prima fase post-pentapartitica, apertasi con Tangentopoli e con lo scardinamento dei grandi partiti di massa, ma con l’avanzare dei primissimi fenomeni di qualunquismo (più che di populismo conclamato nel grillismo): ossia nella generalizzazione dei problemi, nella semplificazione esasperata degli stessi e nella banalizzazione delle soluzioni concrete che necessitavano di iter burocratici vissuti come inutili orpelli, al pari del più complesso regime democratico repubblicano.

Intendiamoci: seppure la Lega sia diventata organicamente forza di governo di estrema destra, assolutamente coerente con il suo nuovo corso neonazionalista; seppure i Cinquestelle stiano, con Conte, facendo un percorso di avvicinamento ulteriore al progressismo, non sono mai del tutto spariti i primissimi impulsi qualunquisti e populisti degli anni ’90 per quanto concerne l’ex partito bossiano, e del primo decennio del Duemila per quanto concerne il movimento ex grillino.

Ma le dinamiche sociali, economiche, finanziarie, primo complice il rinascimento del multipolarismo mondiale e le ricadute sulla contesa globale che si esprime nelle guerre che imperversano dall’Est Europa al Medio Oriente fin dentro i più remoti anfratti dell’Asia, hanno indotto ad una ridefinizione dei confini politici interni al nostro Paese, perché si sono oggettivamente poste nuove esigenze da interpretare; pur rimanendo l’elettorato abbastanza polarizzato tra centrodestra e centrosinistra e lasciando, quindi, pochissime possibilità ad una riedizione dei tentativi tanto salviniani quanto grillini di scardinamento del bipolarismo.

Un sistema in cui la nuova era del M5S di Conte non prevede, ad esempio, il ritorno al proporzionalismo (magari in ossequio all’originario “ognuno vale uno“), pensandosi come parte del fronte progressista e intendendo quindi il futuro della politica italiana entro lo schema di un molto poco democratico assetto bipolare il cui rischio di scivolare nell’involuzione bipartitica in stile stelle e strisce non è per niente escluso ed escludibile nel prossimo futuro.

Dalla lettura del programma e dei quesiti posti alla platea dei novantamila iscritti al Movimento, se ne deduce, non fosse altro come prima impressione, che oggi i Cinquestelle hanno l’intenzione di rifondarsi come partito strutturato, qualora prevalesse l’impostazione contiana della necessità di una forza politica organizzata sui territori per supplire a tutte le evidenti mancanze che si riflettono nelle inversioni di tendenza elettorali locali al momento del voto: pur stando nel centrosinistra di nuovo modello, i risultati sono modesti, i consensi volano via. Ma quelli nazionalmente intesi restano quasi intatti.

Una delle spiegazioni è esattamente la mancanza di una classe politica e dirigente locale che, a causa delle regole sui due mandati, non ha potuto consolidarsi e crescere: tanto sul piano della conoscenza politica delle macchine amministrative quanto, soprattutto, nel rapporto con i cittadini. Ugualmente, i tanti temi posti all’attenzione delle iscritte e degli iscritti, denotano come fino ad oggi non vi sia mai stato un vero programma politico del Movimento, ma solamente un rifarsi ad una primordiale ispirazione anti-ideologica, che ne ha ostacolato la collocazione in un preciso punto dell’agone politico e parlamentare.

Se i Cinquestelle di Conte sceglieranno il perimetro progressista come casa naturale del loro agire, la competizione col il PD non potrà che fare bene al rapporto vicendevole di una sinistra moderata che deve recuperare non solo energie elettorali ma, in particolare, un profilo intellettualmente, politicamente e socialmente onesto con sé stessa e con il mondo del lavoro e dell’indigenza a cui vuole e può fare riferimento.

La sinistra di alternativa, i moderni comunisti – ammesso che riescano a rifondarsi ancora una volta e ad abbandonare le pulsioni settarie – possono essere della partita che, a quel punto, si farebbe molto, molto interessante. Tre rifondazioni sono in atto in questa fine d’autunno dell’anno di grazia 2024: una è quella, per l’appunto, del nuovo corso pentastellato appena descritto; una è quella di un PD che può ancora spostarsi un po’ a sinistra, nonostante gli appoggi in Europa a von der Leyen e ad una economia di guerra che è insostenibile; un’altra è quella comunista, di Rifondazione Comunista.

I Cinquestelle completano il loro cammino ricostituente che, ci si augura, vada nella direzione predetta abbandonando il nichilismo di Grillo. Il PD prova a mediare tra bonaccinismo e nuova rappresentanza della sinistra moderata. Alleanza Verdi e Sinistra rappresenta un caposaldo di una alleanza tra istanze differenti ma convergentissime su importanti punti di programma e ideali su cui anche Rifondazione Comunista può essere pienamente d’accordo. Il XII congresso nazionale del PRC, che si terrà a metà gennaio prossimo, deve sciogliere questo nodo.

Essere l’estremità della sinistra di alternativa nel campo progressista o essere un fattore residuale di pura testimonianza, ininfluente e incapace di aprire un varco da “terzo polo” in una fase in cui la polarizzazione della politica non scema ma aumenta e si consolida? Per andare oltre il melonismo e l’incedenza indecente di una destra che devasta ogni ambito sociale, occorre una forza comunista che affianchi le altre forze progressista e che sia da stimolo, anche nei confronti del nuovo corso dei Cinquestelle, per trovare sempre più ampi punti di contatto e di costruzione delle lotte.

Autonomia e unità” vale, come binomio, non solo per Rifondazione Comunista, ma per ogni forza politica che intenda rimarcare le sue priorità in un contesto di convergenza su valori, programmi e istanze su cui si può dare all’Italia un nuovo corso di implementazione dei diritti e dei doveri, delle priorità sociali rispetto a quelle individuali di un egocentrismo privatistico che va oltrepassato grazie ad un progressismo di nuova concezione. Autonomi e uniti, lavoriamo in questa direzione necessaria.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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