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Alexandro Sabetti

Non è stata solo una questione politica: gli italiani, come popolo, hanno scelto di trasformarsi in una pallida imitazione degli Stati Uniti, adottandone le catene commerciali, lo stile di vita, i modelli di comportamento e l’ossessione per le novità.

Italia, la brutta copia degli Stati Uniti

Per comprendere la deriva americana della società italiana, basterebbe pensare alle reazioni della politica occidentale alla notizia del mandato d’arresto emesso dalla CPI nei confronti di Benjamin Netanyahu.

L’imbarazzo è stato notevole in tutte le cancellerie che, camminando sulle uova, hanno tentato di non screditare completamente l’organismo dell’Aia e contemporaneamente di non far irritare l’alleatopadrone a Tel Aviv.

Il peggio l’hanno dato gli Stati Uniti, ma questo era largamente prevedibile, che in fondo considerano Israele il loro 51° Stato, e a ruota l’Italia (il 52°). Del resto, la faccia di Salvini era un programma, e la sua affermazione è stat degna di un Mike Pompeo:
“Conto di incontrare presto esponenti del governo israeliano e se Netanyahu venisse in Italia sarebbe il benvenuto. I criminali di guerra sono altri”.

La società americanizzata

L’Italia, nel corso degli ultimi decenni, ha progressivamente abbandonato molte delle sue caratteristiche culturali e sociali per adottare modelli di vita, valori e ideologie importati dagli Stati Uniti.

Questo processo, già osservabile negli anni Settanta, è stato descritto in maniera lucida da Aurelio Lepre nella sua Storia della prima Repubblica (1993), un testo che fornisce spunti fondamentali per comprendere come il nostro Paese si sia trasformato in un’imitazione del modello americano, a discapito delle proprie tradizioni.

Lepre sottolinea come, già prima della fine del XX secolo, la società italiana fosse orientata verso consumi individuali. Tale inclinazione contrastava con i tentativi di alcuni leader politici, come Enrico Berlinguer, di introdurre nella società “elementi di socialismo”, capaci di riequilibrare il benessere privato con un senso di giustizia sociale.

Tuttavia, il desiderio diffuso di migliorare il proprio status materiale e consumistico si rivelò più forte delle istanze collettive. Questa tendenza è esplosa negli anni Novanta con l’ascesa di Silvio Berlusconi, che rappresentò un punto di svolta: il trionfo dell’individualismo edonista, in perfetta continuità con il modello culturale americano.

Una responsabilità collettiva

L’analisi di Lepre ci spinge a riflettere su un punto cruciale: il declino culturale dell’Italia non è il risultato di una cospirazione politica, né del cinismo di pochi attori, ma una scelta collettiva degli italiani. Come popolo, abbiamo deciso di abbracciare il liberismo economico e culturale importato dagli Stati Uniti, accettando i suoi corollari: il consumismo sfrenato, l’ossessione per l’apparenza e per le novità, la frammentazione sociale e l’abbandono delle tradizioni.

L’adozione dello stile di vita americano si è manifestata in vari modi: dalla proliferazione delle catene commerciali globali alla centralità del consumatore come figura dominante nella società, passando per un’attenzione superficiale alla “correttezza politica” e alla rappresentanza di minoranze.

Questi fenomeni hanno contribuito a trasformare sia la destra, che ha smesso di voler conservare valori autentici, sia la sinistra, che ha rinunciato a proporre cambiamenti strutturali significativi. Entrambi gli schieramenti, nella loro essenza, si sono allineati al paradigma liberista.

Non tutti gli italiani, naturalmente, hanno abbracciato con entusiasmo questo nuovo corso. Molti, soprattutto tra le generazioni più anziane o tra coloro più legati alle tradizioni, hanno visto con scetticismo e disagio il rapido cambiamento del Paese.

Eppure, la maggior parte di questi dissidenti ha scelto il silenzio. In un’Italia dominata dall’immagine di “modernità” proposta dagli anni Ottanta e Novanta, criticare il liberismo e il consumismo equivaleva a passare per nostalgici, arretrati o incapaci di stare al passo coi tempi.

Questa mancata opposizione attiva ha permesso al modello americano di radicarsi profondamente, trasformando l’Italia in una società dove il piacere individuale e l’autorealizzazione personale prevalgono sul senso di responsabilità collettiva.

Un nuovo paradigma è possibile?

Oggi, a distanza di trent’anni, le conseguenze di questa trasformazione sono evidenti. Il liberismo, con la sua enfasi sull’individuo, domina ancora la cultura italiana. Le manifestazioni simboliche, come le bandiere ucraine sui balconi, riflettono l’influenza di una narrazione globale che impone modelli di comportamento e valori importati dall’estero, spesso acriticamente accettati.

Per invertire questa tendenza, è necessario affrontare una sfida complessa: far comprendere agli italiani che l’alternativa richiede sacrifici e un profondo ripensamento dei valori dominanti.

La via per un cambiamento reale non sarà facile, poiché implica mettere limiti al benessere individuale in nome del bene comune. Questo ritorno agli «elementi di socialismo» auspicati da Berlinguer non sarà né indolore né immediato, ma rappresenta l’unica possibilità per riscattare l’Italia dalla sua condizione di “brutta copia” degli Stati Uniti.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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