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Venerdì 29 novembre ci sarà uno sciopero generale che si prospetta meno rituale e simbolico rispetto a quelli passati: soffiano venti di crisi economica e ritorno dell’austerità, in un quadro di riarmo e tentativi europei di economia di guerra riducono gli spazi concertativi per le direzioni dei sindacati confederali.
Nel frattempo si accumulano conflitti sui rinnovi dei CCNL, rivendicando forti aumenti salariali. Inoltre, gran parte del sindacalismo di base – ma anche settori del movimento studentesco e per la Palestina, come i GPI – hanno chiamato a unirsi alla mobilitazione.
Lo sciopero non deve rimanere una data isolata: trasformiamolo in un primo momento di convergenza intersindacale tra lavoratori e di alleanza col movimento studentesco e per la Palestina, per costruire un piano di lotta contro il governo.
Venerdì prossimo 29 novembre la CGIL e la UIL lanciano uno sciopero generale di otto ore, rivolto a tutte le categorie di lavoratori, salvo alcune importanti eccezioni su cui torneremo. Si tratta del terzo sciopero generale confederale negli ultimi 3 anni, in cui la guerra in Ucraina e l’aumento dei tassi d’interesse hanno aggravato le tendenze alla crisi e all’austerità. L’effetto – con il contributo decisivo dell’ascesa di Giorgia Meloni – è stato la fine delle ipotesi concertative riaperte tra il 2019 e il 2021 dal governo a guida 5Stelle-PD, ma già fortemente compromesse da Draghi. Nel frattempo si è inoltre rotta l’unità sindacale di CGIL e UIL con la CISL: fino al 2022 Landini ha giustificato qualsiasi compromesso al ribasso nel nome del fronte con il sindacato cattolico, una strategia sempre più difficile da motivare ai lavoratori.
Nell’autunno-inverno 2022 e 2023, a dire il vero, CGIL e UIL sono facilmente riusciti a incanalare il malcontento in una sola giornata di mobilitazione. La scorsa primavera però hanno ripiegato con il lancio dei referendum per la reintroduzione dell’articolo 18 e contro l’autonomia differenziata, operazione in sé e per sé condivisibile ma che evidentemente non corrisponde a una strategia per ribaltare i rapporti di forza. Tuttavia, questo novembre il contesto in cui si muovono le direzioni confederali mostra novità che complicano l’opzione di rendere lo sciopero di venerdì la solita data simbolica e isolata.
Le contraddizioni che si accumulano attorno allo sciopero del 29
Il primo elemento di discontinuità della congiuntura è il definitivo ritorno di politiche fiscali restrittive. In aprile, le istituzioni UE hanno infatti approvato una volta per tutte un nuovo “patto di stabilità”, che nella sostanza non cambia i vecchi parametri di riduzione del debito. L’aumento delle spese militari aggrava ulteriormente i vincoli di bilancio, date le politiche NATO di riarmo e la ricerca della cosiddetta “autonomia strategica” da parte dei paesi UE.
A differenza dei tagli della scorsa finanziaria, quest’anno ci sono riduzioni significative alla sanità, all’istruzione e alle risorse per i rinnovi dei dipendenti statali. Così, a ottobre è saltata l’ipotesi di rinnovo del CCNL della funzione pubblica, mentre già l’inverno scorso la UIL (ma non la CGIL!) non aveva firmato quello della scuola. In aggiunta, pochi giorni fa hanno scioperato i medici e il personale sanitario contro la manovra finanziaria del governo.
Il secondo elemento è invece il riaprirsi di importanti partite contrattuali nel privato e nei trasporti, ove il contesto economico difficile può catalizzare dinamiche di conflitto. Da un lato, l’inflazione ha eroso i salari e spinge i lavoratori a chiedere forti aumenti; dall’altro, il peggioramento della crisi induce i padroni a tagliare i costi. Sono infatti 14 trimestri consecutivi che la produzione industriale italiana cala sotto i colpi della recessione in Europa, Germania in testa. Allo stesso tempo, il 14 novembre i sindacati confederali metalmeccanici FIOM, UILM e FIM abbandonano il tavolo per il rinnovo del contratto metalmeccanico dopo sei mesi di negoziati e il rifiuto totale di Confindustria di discutere le rivendicazioni sindacali su aumenti e riduzione orario di lavoro, annunciando quindi 8 ore di sciopero a data ancora da definirsi. Quasi negli stessi giorni la FILT – la federazione dei trasporti della CGIL – lascia le trattative per il ccnl logistica, dopo che la controparte non ha accettato incrementi salariali del 18%.
Nelle scorse settimane, la FILT è stata anche costretta a lanciare uno duro sciopero nazionale nel trasporto pubblico urbano, incalzata da lunghi mesi di mobilitazione trainata dai sindacati di base. Nelle ferrovie continuano le proteste di manutentori, macchinisti e personale di bordo – con l’appoggio ancora una volta dei sindacati di base – mentre le burocrazie sindacali confederali si rifiutano di aprire qualsiasi battaglia contrattuale per aumenti e riduzione dell’orario di lavoro.
La recessione in Europa e Italia fa infine emergere il tema della ristrutturazione in alcuni comparti manifatturieri rilevanti in termini di occupazione e sindacalizzazione. Parliamo dell’automotive, settore in cui lo scorso ottobre la FIOM ha fatto 8 ore di sciopero contro i piani di ridimensionamento di Stellantis. Si aggiunge la crisi della produzione di elettrodomestici: difatti è di pochi giorni fa la notizia dei 2.000 esuberi annunciati dalla multinazionale turca Beko. Crolla anche il tessile-moda, che in alcune zone del centro-Italia rappresenta ancora una componente rilevante del tessuto produttivo e del conflitto di classe. Questo è il caso del principale polo nazionale del settore, ovvero la piana Firenze-Prato-Pistoia, dove negli ultimi anni si è sviluppato un ciclo di lotta animato principalmente dai lavoratori immigrati organizzati dal sindacato Sudd Cobas (ex-Sicobas Firenze-Prato).
Le debolezze della piattaforma CGIL UIL e la buona notizia della partecipazione dei sindacati di base e del movimento per la Palestina
La riduzione dei margini concertativi e il crescente fermento dal basso impattano sui toni e sulle modalità con cui è stato convocato questo sciopero generale. Landini ha più volte ribadito la “necessità di una rivolta sociale”, nel contesto di una piattaforma mediaticamente presentata come fortemente critica nei confronti dell’austerità, del governo e di Confindustria. Inoltre, diversamente dallo scorso anno, CGIL e UIL hanno in parte resistito al tentativo del governo e della commissione di garanzia scioperi di precettare alcuni settori strategici, come trasporti e sanità. Tuttavia, l’adattamento della strategia dei burocrati agli ostacoli ‘dall’alto’ e alle sollecitazioni ‘dal basso’ non ne cambia la natura: l’obiettivo è tornare ai tavoli esercitando pressioni controllate sull’esecutivo, con il risultato di frenare la potenzialità che i vari conflitti in corso presentano per ribaltare i rapporti di forza a vantaggio dei lavoratori.
Tutto ciò si manifesta in una piattaforma molto debole. CGIL e UIL giustamente criticano la prospettiva dei sette anni di austerità del piano di rientro dagli squilibri di bilancio, presentato dal governo alla commissione UE in base alle nuove norme del patto di stabilità. È però del tutto assente una denuncia delle compatibilità imposte dall’UE, come il vincolo del deficit al 3% e la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL fino al 60% (quello dell’Italia è oggi al 150%). Tali compatibilità sono impossibili da rispettare a meno di un massacro sociale, costringendoci pertanto a tornare a rivendicare la rottura con l’Unione Europea capitalista e il rifiuto del pagamento del debito.
Nel programma di CGIL e UIL inoltre mancano rivendicazioni esplicite contro l’aumento delle spese militari, trascurando il legame con l’austerità nel quadro di un crescente investimento della classe dominante – in Italia e in Europa – in politiche di riarmo e riconversione all’ “economia di guerra”, espressione quest’ultima sempre più usata anche nelle stesse sale dei bottoni. In questo solco, non viene rivendicata la riconversione a scopi civili di aziende coinvolte nell’industria degli armamenti, come Leonardo spa. Manca qualsiasi lotta contro il tentativo di rafforzare gli aspetti “dual use” delle produzioni civili – quindi per il boicottaggio del trasporto di armi nei porti e nelle ferrovie – o il contrasto alle partnership universitarie con NATO, aziende belliche e Israele.
Tornando su un terreno più strettamente ‘economico’, CGIL e UIL non possono certo escludere dalle ragioni dello sciopero la risoluzione delle questioni contrattuali aperte. Tuttavia, non c’è nessun tentativo di utilizzare la mobilitazione del 29 per centralizzare e unificare le parole d’ordine che concretamente emergono dalle varie lotte per il contratto, in primis quella di forti aumenti a recupero del potere d’acquisto. Il condensato politico sarebbe in questo caso la rivendicazione di un salario minimo intercategoriale sufficiente a una vita dignitosa (la cifra specifica la devono decidere i lavoratori: ma proponiamo 1500 euro mensili netti) e una scala mobile sui salari indicizzata all’inflazione.
L’unica proposta confederale per le retribuzioni è invece la richiesta al governo di detassare gli aumenti salariali, un cedimento vergognoso alla concezione neoliberale e padronale per cui i bassi redditi sarebbero il risultato di una bassa produttività. Quest’ultima è un’idea teoricamente ed empiricamente falsa: mentre i salari hanno stagnato, la produttività nell’industria è aumentata del 12% nell’ultimo decennio. Nessun riferimento, infine, alla riduzione dell’orario di lavoro, che invece è parte della piattaforma della FIOM e che – fuori dal perimetro dei confederali – viene agitata con forza nelle lotte dei ferrovieri.
La scarsa volontà da parte di Landini e Bombardieri di estendere le lotte in corso e di poggiarsi su di esse si vede proprio dall’esclusione dei ferrovieri dalla possibilità di partecipare allo sciopero generale. Se è vero che i dirigenti di CGIL e UIL hanno creato alcune frizioni con l’esecutivo rifiutando di sottoscrivere la precettazione di trasporti e sanità, così non è stato per il trasporto ferroviario merci e passeggeri. Si tratta non solo dell’ennesima restrizione del diritto di sciopero ai danni di questa categoria, a causa della legge 146/1990 (approvata con il beneplacito delle stesse direzioni confederali), ma anche di un forte gap per la mobilitazione, vista la capacità dei ferrovieri di bloccare il paese.
Meritorio a dire il vero che nella convocazione dello sciopero vi sia un accenno a ritirare il ddl sicurezza ex 1660, con cui il governo mira a reprimere il dissenso – incluse forme di protesta patrimonio del movimento operaio come il blocco stradale – a corollario di una gestione sempre più ‘militare’ della crisi da parte di chi ci governa. Le direzioni CGIL e UIL – fatta eccezione per la FIOM, che ha partecipato all’assemblea del 16 novembre a Roma – non ha però ancora aderito a nessun percorso volto a costruire una mobilitazione continuativa contro un decreto che rappresenta una minaccia immediata alla capacità della classe lavoratrice di difendere i propri diritti.
La buona notizia (e i limiti) della partecipazione del sindacalismo di base allo sciopero generale
Altro dato significativo è l’adesione allo sciopero da parte della stragrande maggioranza del sindacalismo di base. Si tratta di un risvolto importante per radicalizzare una data che, sebbene ricca di potenzialità, sconta i problemi politici che abbiamo appena analizzato.
Tuttavia il sindacalismo di base è limitato dall’aver aderito alla spicciolata, non producendo alcun percorso di reale coordinamento volto a costruire una piattaforma alternativa a quella delle direzioni concertative. Tuttavia, l’unità di fronte allo sciopero del 29 novembre può rappresentare un primo passo per riflettere su una prospettiva del genere. Al contempo in queste settimane si sono svolte assemblee territoriali tra sindacati combattivi – a volte anche con studenti – in cui è emerso il problema di una lotta politica più generale contro l’economia di guerra e il genocidio sionista, insieme al bisogno di radicalizzazione delle rivendicazioni sociali.
Un ulteriore problema da sottolineare è la separazione dei cortei dei sindacati di base rispetto a quelli di CGIL e UIL, data la presa che continuano ad avere le direzioni concertative nonostante siano responsabili delle peggiori nefandezze ai danni dei lavoratori – come l’assenza di scioperi contro la riforma Fornero delle pensioni nel 2011 e lo sciopero generale a Jobs Act già approvato nel 2014, pur di mantenere l’unità con la CISL.
Questo fa sì che sia molto difficile pensare a un abbandono in massa dei confederali da parte dei lavoratori, così come alla possibilità di una diserzione a vantaggio dei cortei dei sindacati di base. A tutto ciò si aggiunga l’enorme sproporzione organizzativa tra confederali e sindacati di base, dato che questi ultimi – sommati – non hanno nemmeno un decimo degli aderenti alla sola CGIL sebbene organizzino alcune avanguardie. Chiamare manifestazioni separate, invece di provare a formare spezzoni combattivi nelle piazze lanciate da CGIL e UIL, vuol dire perdere un’occasione per provare a polarizzare a sinistra settori di lavoratori che difficilmente verrebbero a contatto con le idee del sindacalismo combattivo in altro modo. Questo, in una situazione in cui vi è la potenzialità che emergano contraddizioni tra base e direzioni, vista la situazione economica e politica in cui ci troviamo e la debolezza della proposta dei burocrati confederali.
Detto ciò, tutti i limiti che possiamo riscontrare nell’adesione di COBAS, CUB, SGB ecc. sono oscurati dalle implicazioni negative della non partecipazione di USB allo sciopero generale, per privilegiare il proprio percorso del 13 dicembre. È vero, come spesso sottolineano i suoi dirigenti, che USB rappresenta il più grande sindacato di base in Italia, con alcune posizioni rilevanti nel settore pubblico e nei trasporti, ma anche in alcune fabbriche metalmeccaniche, come la GD di Bologna e l’Ilva di Taranto. Proprio per questo, però, la sua defezione dalla data del 29 novembre, oltre a favorire oggettivamente la frammentazione della classe, depotenzia ulteriormente la possibilità di polarizzare a sinistra la mobilitazione. Auspichiamo e facciamo appello affinché gli iscritti USB partecipino allo sciopero generale e facciano pressioni in tal senso sulla propria direzione.
La buona notizia (e i limiti) della partecipazione del sindacalismo di base allo sciopero generale
Lo sciopero generale del 29 novembre rappresenta una data che condensa numerose contraddizioni, utili a ragionare rispetto a come le avanguardie di lavoratori – ma anche il movimento giovanile e studentesco – possano intervenire nella congiuntura per ribaltare i rapporti di forza a proprio vantaggio. Di fronte alla crisi, all’austerità e alle crescenti tensioni militariste e repressive, è sempre più chiaro come non si possa ottenere nessuna concessione senza estendere il conflitto.
Se ne sono – almeno in parte – accorti anche i vertici dei sindacati confederali, i quali però mirano a un conflitto controllato per riaprire un tavolo con il governo e provare a rilegittimare un’opzione di centro-sinistra, mentre “passa la nottata” rappresentata dal governo di estrema destra. Il partito democratico e i suoi affiliati a livello europeo, però, non solo sono responsabili delle peggiori politiche di massacro sociale nel decennio post-crisi 2008 e di decreti – come il Miniti-Orlando – che hanno spianato la strada alle politiche di criminalizzazione degli immigrati e del dissenso portate avanti dall’estrema destra. Essi sono anche tra i principali sostenitori dell’economia di guerra e del rafforzamento dell’unione europea capitalista, in nome della quale non hanno mostrato problemi a sostenere l’ingresso di esponenti come il meloniano Fitto nella commissione Ursula Von der Leyen bis.
È allora necessario usare lo sciopero generale per sfidare le burocrazie sindacali a partire da un programma di lotta che metta al centro il rifiuto dell’austerità e delle compatibilità europee, un salario minimo intercategoriale di 1500 euro netti, forti aumenti salariali, l’introduzione di una scala mobile indicizzata all’inflazione e la riduzione dell’orario di lavoro. Questo è il condensato politico delle varie vertenze nel settore pubblico – dalla sanità alla scuola, passando per università e ricerca – e nel settore privato. Il successo delle rivendicazioni economiche non può però prescindere dal contrasto all’economia di guerra, in cui sanità e istruzione vengono sacrificate per il riarmo europeo, del quale il sostegno occidentale alle politiche coloniali e genocide di Israele è corollario. Parimenti, è necessario lottare contro la repressione, che mette in discussione – oltre al dissenso politico – anche forme di lotta con cui i lavoratori e le lavoratrici hanno da sempre rivendicato i loro diritti. Repressione che – con la tendenza alla conversione di interi settori produttivi alle esigenze belliche – minaccia di essere utilizzata in maniera sempre più capillare, anche sotto-forma di legislazione anti-sciopero. Lo sanno bene i ferrovieri, peraltro sempre più strategici per l’invio di armi in scenari di guerra.
Il tema dell’opposizione a misure repressive come il ddl sicurezza ex 1660 – ma anche alla legge 146 con cui il diritto di sciopero viene costantemente violato nei servizi e nei trasporti pubblici – è allora ciò in cui nell’immediato ci si dovrebbe spendere per rilanciare la mobilitazione dopo il 29 Novembre. In quest’ottica – oltre che per collegare le rivendicazioni economiche al contrasto all’economia di guerra, al genocidio sionista e all’appoggio alla resistenza palestinese – è allora importante evidenziare il filo conduttore tra questa data e la manifestazione per la Palestina del 30 novembre a Roma. Ancora di più: è urgente porre il problema di rilanciare l’arma dello sciopero generale tanto contro la finanziaria, quanto contro il ddl ex 1660, entrambi in corso di discussione e approvazione in queste settimane.
Più in generale, è fondamentale lavorare in modo capillare per far uscire il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici dallo stato attuale di estrema atrofizzazione, promuovendo il più possibile l’unità intersindacale nelle lotte creando coordinamenti che superino gli steccati delle sigle. Occorre organizzare collettivi nei posti di lavoro che coinvolgano al di là di una passiva iscrizione ai sindacati, ma anche assemblee che mettano insieme studenti e operai per favorire la politicizzazione delle lotte. Perciò vediamo con favore il crescente interesse di settori del movimento pro-palestina – come i GPI, ma anche la rete Ricercatori e Lavoratori della Ricerca ed Università per la Palestina – rispetto a una riflessione sul ruolo strategico che alcuni settori della classe lavoratrice possono giocare contro l’economia di guerra e il genocidio sionista.
Lo sciopero generale di venerdì 29 e la mobilitazione di sabato 30 per la Palestina siano l’inizio di un processo di lotta che riporti al centro la partecipazione e il protagonismo della classe lavoratrice, contro governo e Confindustria, contro chi ci trascina nella spirale dell’escalation bellica, per il recupero di decenni di erosione salariale, per ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, per rilanciare il sindacalismo conflittuale nel paese. In gioco c’è la capacità della classe lavoratrice di tornare ad incidere collettivamente.
Lorenzo Lodi, Giuseppe Lingetti