L’idea di vivere nel migliore dei mondi possibili è una convinzione che spesso si ammanta di razionalità per giustificare lo status quo. Questa illusione, ripresa dal personaggio Pangloss nel Candido di Voltaire, è oggi un pilastro implicito del pensiero liberista. Ma dietro l’apparente ottimismo, si cela una rinuncia collettiva al cambiamento e alla critica, che rappresenta il vero fondamento di un futuro migliore.
L’illusione liberista: l’uso strategico della rassegnazione
Chi vuole costruire un futuro diverso deve partire proprio da una profonda analisi del presente, senza farsi incantare da narrazioni che presentano le disuguaglianze, le ingiustizie e le inefficienze come inevitabili.
È qui che si manifesta la forza coercitiva del potere: convincere che le condizioni attuali siano il frutto di una necessità storica, anziché di scelte deliberatamente orientate a mantenere privilegi e gerarchie.
I poteri ingiusti si sono sempre basati su un meccanismo subdolo: far apparire le proprie scelte come un destino. Questo approccio si traduce nell’accettazione passiva delle contraddizioni del presente.
Disuguaglianze economiche, sfruttamento delle risorse, precarietà lavorativa e ambientale vengono spesso presentati come “prezzi inevitabili” di un progresso che, sebbene imperfetto, sarebbe comunque l’unica opzione possibile.
La critica del passato, o addirittura la sua cancellazione, rafforza questa illusione: negando che alternative siano mai esistite, si impedisce di immaginare che possano esistere ancora.
Come osservò Friedrich Nietzsche, il passato dimostra che il cambiamento è possibile. Se una realtà alternativa è esistita, essa potrebbe essere ricreata o reinterpretata in forme nuove. Eppure, nel discorso dominante, il passato è spesso ridotto a una caricatura: una serie di errori superati che non hanno nulla da insegnare. Questa distorsione è funzionale a chi detiene il potere, poiché neutralizza qualsiasi tentativo di immaginare un futuro differente.
La necessità spacciata per virtù
L’accettazione del presente come inevitabile è accompagnata dalla narrazione autoconsolatoria che sacrifica valori e ideali sull’altare della presunta necessità. I media giocano un ruolo cruciale in questo processo, promuovendo modelli di successo che celebrano la competizione e l’individualismo. In questo contesto, chi detiene la ricchezza e il potere – i “vincenti”, come amano definirsi – trova conferma e giustificazione della propria posizione.
L’intuizione di Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo – “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” – descrive perfettamente questa dinamica. I cambiamenti che vengono promossi sono spesso superficiali, destinati a mantenere intatte le strutture di potere. Il progresso è inteso non come un miglioramento collettivo, ma come un adattamento alle esigenze del mercato e del capitale, privato di qualunque dimensione etica o morale.
La sfida della critica
In un mondo che esalta il pragmatismo, la critica radicale del presente è vista con sospetto. Chi osa mettere in discussione le narrazioni dominanti rischia di essere etichettato come idealista, anacronistico o addirittura estremista. Eppure, è solo attraverso una critica coraggiosa che si può immaginare un futuro diverso.
Questo non significa un ritorno al passato, ma una rielaborazione creativa delle sue lezioni. La sfida è immaginare alternative che vadano oltre il modello imposto da figure come Bezos, Musk o Elkann, le cui visioni futuristiche spesso mascherano interessi personali e perpetuano le disuguaglianze. La vera innovazione consiste nel mettere al centro la responsabilità e l’impegno collettivo, anziché l’accettazione passiva di un destino preconfezionato.
La necessità non è mai un destino: è una scelta, e come tale può essere cambiata