Quando manifestazioni di dissenso a grandi opere, che hanno un grande impatto sull’ambiente e sulla necessaria spesa sociale e nessuna utilità per gran parte della popolazione, hanno notevole partecipazione e durata, l’idea è di far pagare ai contestatori le spese della repressione delle lotte sociali / ambientaliste e di denunciarli per il “discredito” che esse portano ai governi e alle imprese.

Il 19 marzo, negli Stati Uniti, Greenpeace è stata multata con un importo di 667 milioni di dollari per il suo appoggio alla lotta delle comunità dei nativi Sioux del Dakota contro la realizzazione dell’impattante oleodotto Dakota Access Pipeline; una lotta che ha avuto una lunga e travagliata storia di iniziative sul territorio, di ricorsi legali ed anche di interventi presidenziali.

L’oleodotto sotterraneo di 1900 chilometri porta il petrolio dal North Dakota all’Illinois. Le tribù Sioux espressero da subito preoccupazione per le eventuali perdite della conduttura che passa sotto il lago Oahe, una delle loro principali fonti di acqua. E che attraversa anche i siti sacri di sepoltura dei popoli Lakota e Dakota, due tribù Sioux. Dal 2014, le associazioni ambientaliste, tra cui Greenpeace, sollevarono preoccupazioni sia per l’impatto dei lavori sull’aria, la terra, la fauna selvatica, l’agricoltura, sia per la sicurezza dell’impianto nel caso, non improbabile, di fuoriuscita o di perdita di petrolio, con la conseguente grande contaminazione delle acque (anche quelle del fiume Missouri). Tali preoccupazioni furono confermate da una petizione firmata da 160 scienziati.

La mobilitazione avvenne negli anni 2016 e 2017 con un’ampia partecipazione di 200 tribù di nativi e di varie associazioni di difesa della natura: nei pressi della Riserva Sioux di Standing Rock fu realizzata una tendopoli, sulle due sponde del fiume Missouri, che ospitò anche più di 10.000 persone.

La lotta per la difesa del territorio comportò scontri con la vigilanza dei cantieri, che utilizzava cani da guardia, con l’esercito e con la polizia ed anche attentati agli impianti. 750 arresti furono effettuati in quegli anni. La vicenda fu affrontata anche con pressioni verso le banche finanziatrici dell’opera e con istanze alla magistratura; la quale, in alcuni casi, ritenne che i lavori di realizzazione dell’oleodotto non avevano a supporto un’analisi approfondita dei rischi ambientali.

L’amministrazione federale di allora, quella del presidente Obama, chiese all’impresa di costruzione di valutare una deviazione dell’oleodotto onde evitarne il percorso nelle “terre sacre” dei nativi; un’istanza proposta anche dal settore ingegneria dell’Esercito, il quale successivamente ingiunse di non effettuare lo scavo sotto il lago Oahe.

L’impresa Energy Transfer, che realizzava la colossale opera di scavo e d’interramento del tubo, dapprima criticò gli interventi del governo per “interferenza politica”, poi l’accusò di aver “abbandonato lo stato di diritto a favore di un elettorato politico ristretto ed estremo”. Infine, la prima amministrazione Trump confermò nel 2017 il tracciato dell’oleodotto.

Trump deteneva nel 2025 da 500.000 a 1 milione di dollari in azioni di Energy Transfer e ne aveva ancora tra i 15.000 e i 50.000 dollari nel 2016, poco prima di decidere a favore dell’impresa contro la lotta ambientalista. Impresa il cui fondatore, Kelcy Warren, è un miliardario importante donatore alle campagne elettorali di Trump.

In relazione ai ritardi dei lavori dovuti alla mobilitazione, la sola Greenpeace era stata denunciata da Energy Transfer alla magistratura per danneggiamento della reputazione dell’impresa, la quale chiedeva un risarcimento di 300 milioni di dollari. Greenpeace, accusata pure di aver finanziato e “addestrato” i contestatori, aveva richiesto più volte il trasferimento del giudizio in un ambiente imparziale, negato infine dalla Corte Suprema dello Stato.

Il verdetto di questi giorni, emesso da una giuria locale, tutte di persone di Mandam, nel Nord Dakota, ha confermato le preoccupazioni dell’associazione ambientalista: la giuria era composta per la maggior parte da persone, negazioniste della crisi climatica, favorevoli all’uso di combustibili fossili: 7 degli 11 giurati scelti per il caso hanno lavorato o hanno familiari che lavorano nel settore petrolifero. Inoltre, il pronunciamento emesso da quella giuria, di 667 milioni di dollari, è andato ben oltre la richiesta aziendale ed è stato emesso sulla base di un’accusa di colpevolezza di violazione della proprietà privata, diffamazione ed associazione a delinquere.

Deepa Padmanabha, consulente legale di Greenpeace, ha dichiarato: “Quello che abbiamo visto in queste tre settimane è stato il palese disprezzo di per le voci della tribù Sioux Standing Rock. E di distorsione della verità sul ruolo di Greenpeace nelle proteste”, che ha svolto un ruolo di indirizzamento non violento delle lotte, oltre ad aver fornito risorse per il mantenimento della tendopoli. L’organizzazione ambientalista, nel preannunciare di opporsi al verdetto che comporta in pratica, per la sua esosità, la scomparsa delle attività di Greenpeace negli Stati Uniti, ha dichiarato che si è trattato di una “rinnovata spinta da parte delle corporation per armare i nostri tribunali e mettere a tacere il dissenso. Si dovrebbe essere tutti preoccupati per il futuro del Primo Emendamento costituzionale (sulla libertà di parola) e per cause come questa, intese a distruggere i diritti di protesta pacifica e di libertà di parola”. Secondo Rebecca Brown, presidente del Center for International Environmental Law, il verdetto è “un attacco calcolato ai diritti sovrani dei Sioux di Standing Rock e di tutti i popoli indigeni che difendono la loro terra e acqua.

Ed è certamente funzionale alla politica di Trump di ripresa delle trivellazioni col metodo impattante del fracking (frantumazione idraulica), che è gravemente impattante sulle acque potabili e sulla natura.

Più in generale, si tratta di un ennesimo tassello della repressione in corso contro le opinioni diverse da quelle del duo Trump-Musk, che in varie forme sta agendo contro organizzatori e partecipanti ad un ampio spettro di manifestazioni che si stanno progressivamente attuando negli Stati Uniti: quelle contro l’appoggio governativo, non solo di questa amministrazione, del genocidio di Gaza. Quelle contro il ruolo incostituzionale di Musk, che, come responsabile del DOGE, sta proponendo e attuando i tagli del personale pubblico, come premessa per una drammatica riduzione del già carente Stato sociale statunitense; e per questo è oggetto di una sempre più diffusa campagna contro le auto prodotte da Tesla, impresa di sua proprietà. E quelle contro l’espulsione dal Paese di preventivate migliaia di persone che non hanno cittadinanza.

Tutto ciò nel prevedibile coinvolgimento nella repressione delle iniziative del movimento dei lavoratori e delle associazioni per la difesa e per l’incremento dei sostegni sanitario, pensionistico, abitativo alla grande parte del popolo statunitense, che ne è privo o ne ha di assai limitati.

La globalizzazione della repressione delle lotte segna dei punti anche in Italia. Tipico di ciò il decreto legge 1660 che criminalizza il dissenso ed aumenta in modo considerevole le pene, anche per chi osa opporsi alle “grandi opere”. Come nel “caso tipo-Greenpeace” che si sta svolgendo a Torino sul tema della repressione delle storiche mobilitazioni contro la realizzazione in Val di Susa di un’inutile per i cittadini (e dannosa per l’ambiente) nuova linea ferroviaria verso la Francia.

In tali casi, le ricadute carcerarie e pecuniarie sui dissenzienti partono da lontano e seguono in genere questo copione: lobby grandi o piccole perorano la loro “causa” in ambito politico/istituzionale, un progetto fantasmagorico è partorito dai tecnici coinvolti (interni o esterni all’amministrazione), sui giornali compaiono articoli che presentano mirabolanti conseguenza della futura opera, illustrata come determinante per il miglioramento della qualità della vita del territorio. Coloro che hanno la costanza di procurarsi il progetto, individuano le conseguenze negative sui soldi pubblici e sull’ambiente. Nascono comitati di cittadini che contestano l’opera e chiedono legittimamente di abbandonarla; alcune schermaglie dialettiche con le amministrazioni locali o nazionali si dimostrano inutili; nelle manifestazioni compare una presenza sempre maggiore della forza pubblica: dai primi spintonamenti, dopo anni di mobilitazioni, si passa a manganellate, arresti e denunce.

Indagini tendenziose individuano infine un “gruppo di facinorosi” mandati a processo e richiesti di pagare le spese per l’intervento contro il dissenso dei cittadini (trasporti, materiali e vestiario protettivo delle forze dell’ordine, attività investigative, straordinari, indennità accessorie e indennità di ordine pubblico, ecc) e il danno di immagine subito dai ministeri e dalla presidenza del Consiglio, inteso come lesione del loro prestigio e della loro credibilità. Queste ultime righe sono il sunto, che ignora il coinvolgimento di centinaia di cittadini, del processo in corso a Torino contro partecipanti alle lotte No Tav in Val di Susa; processo che sostiene che il centro sociale Askatasuna sia niente di più di associazione a delinquere; e le lotte alla TAV in Val di Susa siano organizzate con fili retti da pochi.

Una legittima lotta di massa ultratrennenale contro un’opera antiecologica, utile principalmente a chi la costruisce, viene così trasformata in una strumentalizzazione attuata da una organizzazione violenta che approfitta dell’ingenuità del popolo, la cui mente è riempita subdolamente da idee che non hanno alcun senso (in quanto sull’argomento ha già deciso “chi sa”). Così, parte della Magistratura torinese raffigura la lotta NO TAV della Val di Susa. Nel processo in corso a Torino, lo Stato e le imprese chiedono per gli imputati stratosferici risarcimenti e condanne che appaiono un minaccioso avvertimento per chi si batte per i diritti sociali e per la tutela dell’ambiente e un chiaro segnale del progressivo inverarsi di uno Stato di polizia.

La condanna di Greenpeace per le iniziative nel North Dakota contro il percorso dell’oleodotto e il processo di Torino contro alcuni partecipanti alla lotta contro la nuova linea TAV della Val di Susa sono due facce della stessa brutta medaglia coniata dai due governi e da alcuni magistrati contro il diritto al dissenso in una società che si definisce democratica.

Fonti Principali:

C.Novaro, Conflitto sociale, repressione, media: ancora il caso Askatasuna, Volere la Luna, 11.3

R.Milka, Greenpeace ordered to pay $660 million in Dakota Access Pipeline case in landmark ruling against protest rights, Nation of Change, 20.3

M.Dunbar, Greenpeace Verdict Stems From “Weaponization of the Legal System,” Advocates Say, Mother Jones, 21.3

https://en.wikipedia.org/wiki/Dakota_Access_Pipeline

https://www.greenpeace.org/usa/verdict/

Di Ezio Boero

Nato nel 1954 a Torino, s'avvicina progressivamente alla politica attiva a partire dal 1968 presso il IV Istituto Tecnico Commerciale. Aderisce nel tempo a Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista, Sinistra Critica. Oggi è iscritto alla CUB. Nel 1974 è nel Collettivo Studentesco di Scienze politiche; nel 1977-79 redattore di Radio Città Futura di Torino; una ventina d’anni delegato sindacale di reparto poi rappresentante CGIL nell’azienda dove lavorava; nel 1994 tra i costitutori di ALLBA (Associazione Lavoratrici e Lavoratori Bancari e Assicurativi). Tra i promotori dei Comitati di cittadini per la Difesa del Parco Sempione e Dora Spina Tre su cui ha scritto La Spina 3 di Torino, Trasformazioni e partecipazione: il Comitato Dora Spina Tre, 2011 e Da cittadella industriale a Spina 3: una riconversione incompiuta in Postfordismo e trasformazione urbana, IRES Piemonte, 2016. Segue le lotte sindacali e sociali degli Stati Uniti, argomento su cui ha scritto Storia sociale e del lavoro degli Stati Uniti, StreetLib, 2019 (aggiornato nel 2023), scrive articoli e aggiorna un sito web specifico: https://lottesocialidegli-statiuniti.jimdosite.com/

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