Foto Kulturjam
Israele ha ucciso deliberatamente Hossam Shabat, giornalista di Al Jazeera, dopo mesi di minacce e tentativi di eliminarlo. Testimone della brutalità a Gaza, è stato bersagliato da un drone. Il suo coraggio è un atto d’accusa contro il silenzio dell’informazione occidentale.
Giornalismo sotto attacco: l’omicidio mirato di Hossam Shabat*
Israele ha deliberatamente ammazzato il giornalista di Al Jazeera Hossam Shabat, che per un anno e mezzo ha rischiato incessantemente la vita pur di raccontare all’umanità le migliaia di crimini commessi da Idf nel nord di Gaza.
Hossam era uno dei punti di riferimento fissi per avere informazioni sul genocidio: era rimasto fino all’ultimo nel nord di Gaza, anche durante il primo tentativo di pulizia etnica completa, e aveva seguito da vicino la distruzione totale del campo profughi di Jabalia.
Hossam non era solo un bravissimo giornalista: era molto famoso e aveva un larghissimo seguito sui social network (560.000 follower su Instagram e 165.000 su Twitter). Forse proprio questo seguito è stato la sua condanna a morte.
Israele lo aveva minacciato sin da subito: poco dopo il 7 ottobre 2023, un ufficiale dell’intelligence israeliana lo aveva chiamato al telefono intimandogli di cancellare tutti i suoi post su Facebook posteriori al 7 ottobre e di lasciare immediatamente Beit Hanoun, nel nord di Gaza, pena la distruzione della sua casa. Hossam aveva rifiutato e subito dopo l’aviazione aveva bombardato la sua casa, radendola al suolo.
Israele aveva già cercato di ammazzarlo più volte: a ottobre 2024 l’esercito genocidario aveva affermato di avere “prove” (ovviamente mai mostrate a nessuno) secondo cui Hossam era un cecchino di un battaglione di Hamas e l’aveva messo in una lista di persone da eliminare. Il 20 novembre scorso lo aveva ferito mentre arrivava sulla scena dell’ennesimo bombardamento israeliano su una casa civile.
Ieri pomeriggio Hossam è stato infine ammazzato a Beit Lahia, nel nord di Gaza, da un drone che ha bersagliato l’automobile che usava per lavoro. Il suo ultimo tweet è stato ieri sera: ”A Gaza, il ferito viene ucciso”. Il suo ultimo post su Instagram, immediatamente prima di essere ucciso, è stato il corpo straziato di Mohammed Mansour, altro eroico giornalista giustiziato poche ore prima a Khan Younis insieme alla moglie e al figlio.
Il suo assassinio è l’ennesimo segno che dopo aver fatto fallire la tregua Israele ha gettato ogni remora al vento, e ha intrapreso con decisione la strada della “soluzione finale”: pulizia etnica ed eliminazione fisica senza freni a scopo di conquista, con una bestialità che rivaleggia con quella degli Unni di Attila.
Hossam Shabat aveva solo 23 anni, e un coraggio che gli infami pennivendoli nostrani della scorta mediatica del genocidio non avranno mai, neanche ne vivessero duecento. Anche per questo è facile immaginare che la notizia della sua uccisione verrà sottaciuta, distorta e sepolta in mezzo a quintali di fuffa irrilevante; ma per chi ha ancora un cuore, Hossam resterà per sempre un simbolo del coraggio indomabile del popolo palestinese e insieme della ferocia assassina e genocidaria di uno Stato pronto a commettere qualsiasi atrocità pur di rubare la terra a un intero popolo.
La sua morte è un atto di accusa contro l’intero giornalismo occidentale, che in un anno e mezzo di subdole distorsioni e plateali omissioni ha creato le condizioni per il suo assassinio.
L’ultimo messaggio di Hossam
Questa è la squadra di Hossam e condividiamo il suo messaggio finale:
“Se stai leggendo questo, significa che sono stato ucciso, molto probabilmente preso di mira, dalle forze di occupazione israeliane.
Quando tutto questo è iniziato, avevo solo 21 anni, uno studente universitario con sogni come chiunque altro. Negli ultimi 18 mesi, ho dedicato ogni momento della mia vita alla mia gente. Ho documentato gli orrori nel nord di Gaza minuto per minuto, determinato a mostrare al mondo la verità che hanno cercato di seppellire. Ho dormito sui marciapiedi, nelle scuole, nelle tende, ovunque potessi.
Ogni giorno era una lotta per la sopravvivenza. Ho sopportato la fame per mesi, ma non ho mai lasciato la mia gente.
Se Dio vuole, ho adempiuto al mio dovere di giornalista. Ho rischiato tutto per raccontare la verità, e ora sono finalmente in pace, cosa che non conoscevo da 18 mesi.
Ho fatto tutto questo perché credo nella causa palestinese. Credo che questa terra sia nostra, ed è stato il più grande onore della mia vita morire difendendola e servendo il suo popolo.
Vi chiedo ora: non smettete di parlare di Gaza. Non lasciate che il mondo distolga lo sguardo. Continuate a combattere, continuate a raccontare le nostre storie, finché la Palestina non sarà libera”. — Per l’ultima volta, Hossam Shabat, dal nord di Gaza.