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Non è l’ultimo atto, ma è come se lo fosse, date le attuali premesse. Non è l’ultimo attacco, ce ne saranno altri, tanti altri. Perché la questione palestinese, checché ne dicano i criminali ministri del governo genocida di Israele, non la si potrà chiudere come il coperchio di una bara (immagine peraltro volutamente cruda, tipica di chi fa della morte degli altri il fondamento della propria politica espansionista, innestata su una pulizia etnica che nemmeno nei peggiori regimi coloniani novecenteschi s’era potuta vedere e storicizzare). Anche perché le bare sono più di sessantamila. Ci vorrà del tempo per chiuderle tutte.
Sebbene Netanyahu, Smotrich e Ben-Gvir stiano facendo di tutto per accelerare un processo di annessione che rischia di sfuggirgli di mano, date le sempre più numerose critiche sulla scena internazionale, vista l’enormità dei massacri perpetrati a Gaza e la ferocia dei coloni in Cisgiordania, il mondo oggi può dire di sapere e può essere sicuro domani di ricordare quello che è avvenuto e che sta continuando ad avvenire. Il piano E1 dividerà la West Bank e, nella precisa volontà dei peggiori estremisti supernazionalisti della destra israeliana, dovrebbe significare per l’appunto l’archiviazione di qualunque ipotesi di Stato unitario palestinese.
Ma anche di qualunque altra forma di Stato ipotizzabile in questo senso. Non c’è spazio per i palestinesi nei piani del governo terrorista di Israele. Terrorista, sì. Perché chi sparge terrore, come Hamas, è quello. Ma ormai pochi riescono ancora a definire “legittima difesa” quella dello Stato ebraico dopo i fatti del 7 ottobre 2023: il tempo medica le ferite, ma rende anche evidentissima la verità che, piano piano, si toglie il velo dell’ipocrisia che le era stato imposto e si fa sempre più cristallina: la guerra di Gaza è guerra di conquista, è distruzione del popolo palestinese. Quindi è un genocidio senza alcun dubbio. Chi ne ha, non fa che negare l’oggettività dei fatti.
Mentre l’annuncio dell’invio di oltre tremila nuovi coloni nella zona E1 fa il giro del mondo, contestualmente Tel Aviv annuncia l’inizio di nuove operazioni di terra per l’occupazione manu militari della Striscia. Non è, si diceva all’inizio, l’ultimo atto, ma davvero è come se lo fosse. Cosa rimane, infatti, ai palestinesi? Nulla. Cosa possono fare per difendersi come popolo, come entità, come nazione? Dove possono trovare un appiglio, un aiuto per sostenere il loro diritto a vivere nelle terre in cui sono nati e cresciuti e dove erano le loro case, oggi distrutte da Israele?
Se la comunità internazionale lascia fare, ed anzi benedice le azioni del gruppo di terroristi al governo dello Stato ebraico, non soltanto si rende complice di questa epurazione di massa, di un vero e proprio accanimento genocidiario, ma, seppure indirettamente, accetta il principio della forza che soppianta il diritto, dà un colpo mortale alle Nazioni Unite e permette ad Israele di consacrarsi come dominus regionale, come espediente per altri probabili colonizzatori e imperialisti in altre parti del pianeta. La legge della giungla, in confronto, ha una fisionomia democratica. Quale immagine sintetizza meglio la condizione dei palestinesi se non quella della residuale poltiglia in cui sono ridotti?
Cumuli di macerie, di cadaveri, di morenti e di morti per fame. Una inedia indotta, feralissima arma di una bugiarda guerra il cui originale e originario pretesto è stato l’attacco criminalissimo di Hamas il 7 ottobre di due anni fa. Per un attimo – come ha scritto Marco Travaglio – Israele si trovò, per una volta, dalla parte della ragione. Poi, quasi immediatamente, col proseguire dell’attacco contro Gaza e le altre città della Striscia, passò nuovamente dalla parte del torto più ciecamente nero e profondo. Ha scritto Francesca Albanese: «La violazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione è intrinseca al colonialismo di insediamento». Questo è esattamente ciò che sta avvenendo in Cisgiordania e che, ugualmente, avverrà a Gaza.
Il governo sionista di Netanyahu e della destra ultrareligiosa non si accontenta più di tenere il popolo palestinese chiuso nelle prigioni a cielo aperto, vessato dalle azioni violente dei coloni, sorvegliato specialissimo di un regime apartheidico. Il salto di qualità è stato fatto: Israele coglie così l’ultima opportunità che gli rimane e prova a farla divenire passaggio storico. Farla finita col problema palestinese una volta per tutte. Anche questa è, a suo modo, una “soluzione finale” e, come molte altre nella Storia della disumanità, si trascina appresso tutto il suo carico di omicidiarietà, di morte, di desolazione e di disperazione in chi rimane a contemplare la nuova Nakba senza più una Intifada possibile.
Ma Israele, che oggi canta vittoria per l’evidente sproporzione di armamenti e di resistenza in un conflitto da sempre non equilibrato, dovrà un giorno fare i conti con le modificazioni degli assetti regionali e con un ruolo proprio che gli imporrà un sempre maggiore presenzialismo, tanto da divenire un concorrente temibile per le altre potenze mediorientali. Se, esiliati i palestinesi, i governanti di Tel Aviv pensassero di aver risolto tutti i loro problemi con l’instaurazione del “Grande Israele“, commetterebbero un grossolano errore. Vi incapperanno inevitabilmente, perché sostenere il nuovo livello di dominio esigerà un confronto-scontro con gli altri Stati.
Nessuno paese arabo, amico o nemico che sia, vorrà rivedere i propri confini egemonici sull’area che va dal Sahel alle estremità dell’Indo-pacifico. Il colonialismo israeliano ha fatto anche di peggio, oltre ad appropriarsi delle terre dei palestinesi: ha tentato di cancellarne la memoria, radendo al suolo interi villaggi, per imporsi come cultura dominante, come “nuova storia” di un presente che si fonda solo ed esclusivamente sulla morte, sul sangue, su tanto di più dell’orrore del 7 ottobre 2023. Al posto degli insediamenti palestinesi in Cisgiordania, dopo il passaggio delle ruspe coloniche e dei mezzi di Tsahal, oggi ci sono pochi alberelli di fichi, qualche altra pianta e il deserto intorno.
C’è una valle, quella di Latrun dove tutto questo è molto bene evidente. Ma il mosaico cui è stata ridotta la Cisgiordania è desolantemente ricco di esempi come questo. Si scaccia un popolo, ne si cancella la memoria, la cultura, il tratto identitario che appartiene all’oggi e al domani, visto che è difficile cancellare anche il passato. Ma ci si può riuscire se si fa come i faraoni usavano fare con i loro nemici e, secoli dopo, anche gli imperatori romani si sarebbero adoperati in tal senso: colpi di scalpello sui nomi e i volti di coloro che erano divenuti mortali nemici e, una volta sconfitti, dovevano quindi essere dannati nella memoria. Oblio. Fine. Incoscienza indotta.
Il progetto della mega colonia di Ma’ale Adumim è esattamente questo: una sostituzione di un popolo con un altro, di una memoria con un’altra, di una cultura con un’altra. Non l’integrazione, la vicendevolezza, la reciprocità, la ricerca della solidarietà e della vicinanza come elemento di crescita comune… No… Solo l’odio prevale nella politica nazionalista della destra veramente dai tratti fascisti di un Israele che non può essere definito più una democrazia. Almeno fino a quando non tornerà ad essere la Knesset il centro delle decisioni di un libero Stato che rispetti le nazionalità tutte per poter esigere il rispetto della propria.
Uno dei punti su cui soffermarsi è la trasformazione delle categorie socio-politiche in categorie morali: gli status vissuti dai palestinesi in questi anni si sono trasformati in questo. L’apartheid cisgiordano e gazawita da crimine contro l’umanità è diventato una etichetta con cui categorizzare un’etnia. Un marchio di infamia rilasciato da uno Stato che è detto democratico fino ad oggi (e continua a pensarsi tale) ma che in realtà ha agito come il Sudafrica del segregazionismo razziale e, non di meno, come il governo americano nei confronti dei giapponesi o di quello hitleriano nei confronti degli ebrei e di tutti coloro che venivano considerati “inferiori” e, quindi, indegni non solo dello status di cittadino ma persino di esistere, di vivere.
Israele si è mosso a lungo in questo cono d’ombra a metà tra la finzione e l’ipocrisia della stessa. Perché, è una delle domande che assillano, il mondo ha tollerato che l’apartheid, condannato persino negli Stati ex-coloniali dalle stesse ex potenze che avevano dominato quei paesi, sia potuto durare quasi più di cinquant’anni nel Territorio occupato palestinese? Amnesty Internazional ha scritto: «…i governi con la responsabilità e il potere di fare qualche cosa si sono rifiutati di intraprendere qualsiasi azione significativa per chiedere conto ad Israele delle sue responsabilità». La risposta è piuttosto semplice e tuttavia articolabile per la sua complessità: i tanti interessi geopolitici ed economico-finanziari sono stati un potente freno in questo senso.
Gli avvicendamenti successivi alla definizione dei confini del 1967 oggi sembrano tutte singole premesse per la costruzione di un grande preambolo pretestuoso: porre le condizioni per una resa dei conti con i palestinesi e annettere quei territori che, per lo meno gli ultimi governi della destra estrema, non hanno mai avuto alcuna intenzione di barattare in cambio della fine delle violenze dei gruppi della resistenza dell’OLP e dell’ANP prima e di Hamas poi contro l’incedere incessante della prepotenza sionista. Oramai nemmeno più si affannano a denunciare l’antisemitismo di chi critica Israele, tanta è l’enormità delle atrocità commesse.
I re di Sion sono nudi, completamente nudi davanti al giudizio del presente e domani della Storia. Gaza viene occupata, la Cisgiordania annessa. Tutto torna, purtroppo. Ma, come non è finita la storia degli ebrei dopo l’olocausto nazista e fascista, così non finirà oggi e nemmeno domani quella dei palestinesi. Serve che la reazione del popolo israeliano contro il suo governo criminale continui, che si moltiplichino gli scioperi e che si butti a mare l’attuale dirigenza per permettere un ritorno del dialogo, per lasciare i palestinesi nelle loro terre e tentare la via lunga, lunghissima, della pacificazione.
Non si possono lasciare crescere nuove generazioni solo nella melma dell’odio e del disprezzo vicendevole. Bisogna sottrarre a questa sorte proprio coloro che sono sopravvissuti allo sterminio delle famiglie, alla perdita di tutti i loro cari. Da entrambe le parti. C’è una evidente sproporzione di numeri, ma da qui occorre ripartire. Questo presuppone inevitabilmente la fine dell’egemonia sionista iper-religiosa nel governo dello Stato ebraico. Se Israele diventasse uno Stato laico ne guadagnerebbe in tutto e per tutto. Un sogno? Forse sì, almeno al momento. Così come lo è l’inesistente Stato di Palestina. Ma forse due sogni insieme possono iniziare ad essere un brandello di realtà.
Scene come quella dell’umiliazione di Marwan Barghouti raccontano di un logoramento profondo della società israeliana, abituata alla depersonalizzazione dell’altro da sé stessa, di ciò che non sembra riguardale direttamente. Anche così si fa opera di genocidio, si cancella dall’attualità dell’oggi per non permettere la memoria domani. Se c’è oggi uno Stato veramente criminale a questo mondo, è quello israeliano. Non il suo popolo, però. Ed è da qui che possiamo fare leva, insieme, per dare a tutte e tutti una qualche speranza di esistenza nel prossimo, immediato futuro.
MARCO SFERINI
